Barcillunisa

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Cummari comu va lu vostru vermu?
San Giuvannuzzu, lassatimi stari
Si l’ha manciata la pampina ‘ndernu
A la cunocchia nun vosi acchianari.

(Comare come va il vostro verme?/San Giovannuzzo, lasciatemi stare/si è mangiata la foglia invano/alla conocchia non volle salire).
I versi appartengono a “Barcillunisa”, canto popolare siciliano, proposto dal musicista Alberto Favara nel “Corpus di musiche popolari siciliane ”, che raccoglie più di mille canti, collocati tra ‘800 e ‘900.
Francesco Giuffrida riconosce l’iniziale difficoltà a comprendere pienamente il testo, ma individua nel termine ‘cunocchia’ la chiave di lettura. Quest’ultimo “in siciliano indica anche il bozzolo del baco e addirittura il letto dove il baco si nutre prima di formare il bozzolo; e allora quel ‘ vermu non può che essere il baco da seta, il cui allevamento in Sicilia si diffuse perlomeno dal XV secolo”.
Che si parli di bachi ce lo conferma il territorio da cui proviene il canto: la provincia di Messina, famosa per la coltivazione del gelso, essenziale per l’allevamento del baco.
“Allevamento – sottolinea Giuffrida – che prevede parecchia mano d’opera, abbondanza di foglie di gelso, spazi per i bachi e, ovviamente grossi anticipi in denaro per l’acquisto delle uova e successive rimesse per comperare le foglie ( ‘a frunna ) del gelso. Si capisce che – come avveniva normalmente nelle nostre campagne – il guadagno finale finiva quasi tutto nelle mani di chi possedeva il terreno e i soldi da anticipare: cioè di chi soldi ne possedeva già in abbondanza ( per approfondire: Simona Laudani, “ La Sicilia della seta “, Meridiana 1996 )”.
Per chi svolgeva il lavoro, viceversa, nonostante fatica e sacrifici (il baco puzzolente, avvolto in semplici pezzuole, veniva portato in seno dalle donne e, spesso, l’intera famiglia dormiva all’aperto per lasciare lo spazio al coperto ai graticci dei bachi ) restava molto poco.
Nella ‘Barcillunisa’, scrive Giuffrida, “a cantare sono due donne, ma con una sorta di sottolineatura corale da parte di tenori e bassi; è cosa inusuale nei canti popolari siciliani e può essere compresa solo pensando che non si stia narrando una sventura capitata solo a una persona, ma una disgrazia che interessa tutta la collettività”.
In effetti, nel 1860, un virus infestante (la pebrina) colpì gli allevamenti di tutta Italia e in Sicilia determinò, in un settore per altri motivi già in crisi, la fine della produzione della seta.
“Della sericoltura siciliana – conclude Giuffrida – non resterà nulla, anche se nei canti (come abbiamo visto), nei modi di dire, nei cognomi, nella toponomastica qualcosa ci parla della nostra storia, del nostro passato. A Catania per esempio esiste ancora la ‘ via Consolato della seta ‘, che ci ricorda che, come per altre attività lavorative, esisteva il Consolato, una sorta di ente calmieratore. Così come esiste nel catanese e nel messinese il cognome Manganaro che da un attrezzo in uso nelle filande – il mangano – proviene”.
Tratto da: Francesco Giuffrida, La rivista del Galilei n° 14, novembre 2008
Guarda uno dei tanti siti che danno notizie sulla  bachicoltura e la lavorazione della seta in Sicilia

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