Maledetta Università, o forse, Detta male

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Sono solo luoghi comuni quelli sulla università italiana? Se non altro sono troppi, secondo il professore Francesco Coniglione che li smonta nel suo ultimo libro, Maledetta Università, editore Di Girolamo. Presente l’autore, ne hanno discusso martedì scorso alla libreria Feltrinelli la giornalista Pinella Leocata e  lo storico Tino Vittorio. Per sfatare i falsi miti Coniglione non si serve di strumenti segreti, noti a lui solo. Mette insieme dati ufficiali, presenti anche sul web e quindi accessibili a tutti. Lo ha sottolineato nel suo intervento Pinella Leocata, che ha sintetizzato in modo brillante le convinzioni pregiudiziali smascherate nel libro. Eccole.

  • Le università italiane sono squalificate. Lo smentiscono i dati: la Statale di Milano si colloca tra le cento migliori università del mondo e ne troviamo 6 tra le prime duecento.
  • Le scienze in Italia sono trascurate. Questo assunto è contraddetto dalle eccellenze presenti nelle facoltà scientifiche di molte università italiane.
  • Le università private sono migliori di quelle pubbliche. Nessuna università privata italiana si colloca tra le prime 500 del mondo.
  • I ricercatori italiani producono poco. Saranno pochi e mal pagati ma sono all’ottavo posto nel mondo. Se pochi li conoscono e li citano forse il motivo sta nella scarsa internazionalizzazione del nostro paese

E ancora:

  • Il nostro paese deve adeguarsi al modello americano, l’università deve spostarsi verso il finanziamento dei privati piuttosto che vivere dei finanziamenti pubblici. E qui i dati sono tali da ribaltare tutte le nostre presunte certezze. Negli USA infatti è il governo federale a farsi carico del 60% delle spese per l’università. I governi locali ne sostengono il 7%, lasciando che ogni singola università cerchi il restante 20% dei finanziamenti. Solo il 6% dei costi viene sostenuto dalle industrie private.
  • Come se non bastasse, la ricerca di Coniglione ci chiarisce che negli Stati Uniti il 75% degli interventi dello stato vanno non, come potremmo aspettarci, alla ricerca applicata, ma alla ricerca di base, senza trascurare l’indirizzo umanistico e rivelando una idea lungimirante della qualità del sapere: lo sviluppo culturale nasce infatti da una sapere raffinato e interconnesso.

Perchè allora è ormai corrente un giudizio negativo sulla nostra università? La risposta dell’autore è che sono stati i mass media a sottolineare soprattutto le caratteristiche peggiori di questa istituzione, enfatizzando elementi negativi e scandalistici e offrendo di fatto una sponda alla miope scelta politica dei tagli. Può darsi che sia così, ma – si chiede la Leocata- forse ha sbagliato la stampa, anche locale, quando ha denunciato abusi e scorrettezze? Oppure bisogna comunque dare le informazioni, senza escludere nessun santuario, soprattutto in un momento in cui la figura del giornalista diventa sempre più quella di un professionista debole e ricattabile, anche perchè tendenzialmente precario.
Con un linguaggio franco e spregiudicato Tino Vittorio ha individuato nel libro una valenza antropologica. La crisi cognitiva che caratterizza la nostra realtà è così grave da aver invalidato il detto “il raglio dell’asino non arriva in cielo”. Gli asini infatti sono oggi al potere. La conseguenza è una difficoltà a transitare verso la società della conoscenza, l’unica che possa garantire un futuro alla nostra economia. Cosa vediamo invece? una resistenza all’innovazione e la pretesa di affrontare la crisi con metodi arcaici come la compressione del costo del lavoro, cioè dei salari.
Ma l’Università non è solo il luogo della ricerca, è anche, e forse soprattutto, un luogo di formazione, in cui si dovrebbe creare il tessuto qualitativo del paese, arricchendone il capitale umano. Sul problema della formazione sono stati incentrati molti interventi del pubblico che hanno individuato la necessità di difendere la qualità del sapere in tutti i livelli dell’istruzione, dalle elementari alle superiori.
Cosa servirebbe per migliorare la nostra università? Certo non la riforma spacciata per epocale. Una riforma che rischia di mettere gli atenei in mano alla classe politica e che li sottopone ad uno choc organizzativo, costringendo i docenti ad avvitarsi sui propri assetti interni, subendo decisioni che sembrano avere quasi un sapore punitivo. Interventi correttivi sarebbero stati sì necessari, che valorizzassero però il positivo esistente e operassero in modo selettivo sugli aspetti più problematici.
La confusione indotta dai continui cambiamenti dei piani di studio e dalla sempre diversa organizzazione dei corsi universitari viene pagata soprattutto dagli studenti. A mettere il dito su questa piaga è stata una studentessa che ha evidenziato il disorientamento suo e dei colleghi e ha chiesto l’intervento dei docenti.
E se alcuni degli insegnanti presenti hanno scaricato tutta la responsabilità sulla politica, qualcuno con onestà ha avuto il coraggio di mettere in evidenza anche le responsabilità della classe docente, che si è preoccupata spesso di tutelare se stessa e gli equilibri interni, senza mai discutere delle questioni essenziali relative ai contenuti e alla didattica. Come è accaduto ad esempio nel passaggio al 3+2, compiuto senza interrogarsi, a livello collettivo, su quali fossero i fondamenti ineludibili di ogni disciplina.
Come l’autore ha precisato, a conclusione del suo intervento, la mole di dati che costituisce il fondamento della tesi espressa nel volume è consultabile sul sito L’Italia che affonda.

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