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Salvatore Lupo e la retorica degli antipartiti

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E se la retorica vuoto a perdere degli antipartiti fosse non la soluzione, ma il problema della vita politica italiana dell’ultimo ventennio?
Si chiude con questa domanda l’ultimo lavoro di Salvatore Lupo, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Palermo, Antipartiti. Il mito delle nuova politica nella storia della Repubblica (prima, seconda e terza), editore Donzelli.
Se poi si considera che il volume è stato pubblicato a ridosso della clamorosa affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle, ultimo epigono di questa storia, gli si deve riconoscere anche una certa coraggiosa e intelligente intenzione provocatoria, sia pure non cercata.
In effetti si tratta di una veloce, ma non sommaria, cavalcata attraverso l’Italia del secondo dopoguerra, per dimostrare innanzitutto che la stessa idea dell’antipartito non è solo il frutto dei numerosi scandali che ultimamente hanno caratterizzato la cronaca politico-giudiziaria, ma quasi un elemento costitutivo e caratterizzante della vita politica del nostro paese con radici ben più profonde di quanto si possa pensare, tanto è vero che Lupo le fa risalire fino a Bottai.
Antipartiti e non antipolitica, precisa giustamente Lupo, perché si tratta di movimenti che, lungi dal negare, se non a parole, l’importanza dell’agire politico, hanno avuto addirittura la pretesa di rinnovarlo alla radice, innescando quel ‘mito della nuova politica’, la cui consistenza effettiva è tutta da dimostrare, e facendo mistici appelli ad una altrettanto mitica ‘società civile’ contrapposta ad una classe politica individuata come l’unica causa dei mali del Paese e quindi da cancellare
In tutte le loro molteplici varianti di destra e di sinistra, questi movimenti sono accomunati da una critica alle tendenze oligarchiche, autoreferenziali e invasive rispetto alle istituzioni che i partiti tendono ad assumere. Lupo, naturalmente, non nega queste verità  ma, andando controcorrente e senza scadere in atteggiamenti nostalgici, ritiene che il sistema dei partiti, con tutti i limiti che si vuole e almeno fino alla fine degli anni Settanta, sia stato in grado di rappresentare le esigenze di rinnovamento del paese.
E’ dalla metà degli anni Settanta che questo rapporto con la società comincia a diventare un dialogo fra sordi dando inizio ad una «fase storica in cui i partiti  si mostrano sempre meno capaci di riportare nelle istituzioni le spinte della società civile, di modo che alcune di esse andarono a scaricarsi in forma illegale e violenta o sulla superficie della vita politica o nei suoi sotterranei». In questo senso, Lupo sostiene che «molte tendenze degenerative non siano state il frutto della partitocrazia, ma al contrario l’effetto della presa sempre più debole dei partiti sulla società italiana.»
E’ in questo momento che i diversi movimenti dell’antipartito cominciano a collocarsi soprattutto a sinistra, ma la loro vera esplosione, trasversale a tutti gli schieramenti, si ha all’inizio degli anni Novanta, con la svolta del ’92-’93, la ‘grande slavina’.
In quell’anno sembra realizzarsi un radicale cambiamento nel sistema politico italiano, con la scomparsa di quasi tutti i grandi partiti di massa e il sorgere di nuove formazioni che propugnavano a vario titolo riforme più o meno profonde dell’attività politica, a partire dalla legge elettorale.
L’elenco è piuttosto lungo: Alleanza democratica promossa da Mario Segni, la Rete di Leoluca Orlando, la Lega di Bossi, l’Italia dei valori dell’ex magistrato Di Pietro, per finire con la teatrale ‘discesa in campo’ di Berlusconi.
Quelli che hanno resistito più a lungo sono accomunati, oltre che da una netta ostilità nei confronti dei partiti organizzati, da toni marcatamente populisti e da una pesante personalizzazione della rappresentanza politica.
Ma, cosa hanno prodotto in effetti? Il bilancio che ne trae Lupo è sconsolante e fallimentare «perché i propugnatori del cambiamento hanno dimostrato analoghi se non maggiori difetti della tanto detestata partitocrazia: partiti personali o neopartiti che – sventolando il vessillo della novità e della società civile – sono stati assai meno incisivi dei partiti tradizionali», in quanto la presunta ‘nuova politica’ «non ha saputo affrontare, se non negandolo infantilmente, il suo problema di partenza: come trarre da se stessa un sistema di partiti legittimato, come selezionare i propri quadri in maniera che non sia definibile come una ‘porcata’, come trovare un linguaggio credibile, che non indulga sistematicamente alla demagogia. Come fare, cioè, quanto nel complesso della sua esperienza aveva fatto la vituperata politica vecchia».
La storia italiana non si discosta da quella delle altre democrazie occidentali quanto al crescere del discredito nei confronti della classe politica. Ciò che rende paradossale il caso Italia è il fallimento della sedicente ‘Seconda Repubblica’, che, dietro la retorica patologica dell’antipartito, si è solo limitata a ricoprire il ‘vecchio’ con uno strato superficiale di nuovismo, lasciando spazio in effetti solo a un enorme vuoto culturale e politico.
Non è un caso che, allo sbocco di questo ventennio, alle ultime elezioni sia apparsa la costellazione del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, le cui argomentazioni e la cui struttura organizzativa, al di là delle innovazioni tecnologiche che vorrebbero essere i nuovi strumenti per l’esercizio della favolosa democrazia diretta, non si discostano molto da quelle che giravano nel 1993.
C’è, allora, una prospettiva?
Secondo Lupo, l’antipartito non solo non ha mai portato da nessuna parte, ma rischia solo di distruggere il ruolo fondamentale che la forma-partito ha avuto nella costruzione e sviluppo della vita democratica del nostro paese. Non è, pertanto, l’eccesso di partiti che fa danno ma la loro assenza; per questo -senza impantanarsi in visioni nostalgiche del passato- più che distruggere i partiti, ci si dovrebbe preoccupare di rifondarli daccapo, ridando loro la capacità di ascoltare i reali bisogni della società, di interpretarli e dare loro una risposta coerente ed efficace.
In particolare Lupo lamenta la persistente assenza di grandi formazioni politiche –progressiste, liberali o conservatrici- legate alle tradizioni e alle culture di riferimento europeo.
Non si tratta, in questo caso, di proposte del tutto originali -d’altra parte non è questo il compito dello storico- ma, assieme alle puntuali osservazioni di cui è costellato il saggio, contribuiscono a renderlo denso e ricco di spunti non omologati e, già solo per questo, stimolanti.

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