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Competitività, Sicilia bocciata ma la colpa è di tutti

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Il rapporto UE sulla competitività delle regioni europee ha regalato alla Sicilia l’ennesima maglia nera: il 235 posto su 262, anche dietro la Calabria, piazzata al 233.
In un quadro complessivo in cui l’Italia nel suo insieme ha perso due posizioni, scendendo da 16 a 18, superata anche da Cipro e Portogallo, non è andata meglio neanche alle altre regioni italiane tradizionalmente più avanzate: la Lombardia, che fino a tre anni fa compariva 95mo posto, è scesa al 128mo, al 141 troviamo l’Emilia Romagna, al 143 il Lazio. Tutte le regioni meridionali si trovano molto più indietro.
Alcuni esperti economisti hanno fatto notare che queste classifiche vanno comunque relativizzate perché, ad esempio, nella comunità scientifica non c’è accordo unanime né sul concetto stesso di competitività né sui criteri per misurarla.
Altri commentatori locali hanno rispolverato i soliti argomenti controversistici, ricordando, ad esempio, il dato paradossale di un export in crescita legato come è soprattutto alla produzione e trasformazione di materie prime -come petrolio, gas, chimica di base- che, come è noto, hanno prodotto una industrializzazione senza sviluppo, a vantaggio di industrie che hanno i loro cuori pulsanti in altri lidi e ci lasciano soltanto inquinamento in cambio di pochi stipendi e salari.
Queste e altre argomentazioni hanno, naturalmente, la loro parte di verità; tuttavia a noi sembra che riducano la questione al suo aspetto prettamente economico mentre il concetto di competitività, almeno per come viene inteso dalla UE, offre l’occasione per riflettere in modo più globale e sistemico sul funzionamento dei territori presi in esame.
Quali sono infatti i diversi fattori analizzati?
La ricerca prende in considerazione e assegna un punteggio ad una pluralità di elementi: la qualità delle istituzioni; la stabilità macroeconomica; lo stato delle infrastrutture; il funzionamento del sistema sanitario; la qualità dell’istruzione, delle università e dell’apprendimento permanente; l’efficienza del mercato del lavoro; la dimensioni di mercato; i livelli tecnologici; i processi di innovazione.
Ne viene quindi fuori una fotografia non a una sola dimensione, anche se, naturalmente prevalgono i fattori più direttamente economici, come sono appunto quelli che indagano la stabilità macroeconomica, le infrastrutture, la struttura del mercato, i processi di innovazione tecnologica.
Ma, accanto a questi, ci sono molti altri elementi che fanno luce sul funzionamento del sistema-regione nel suo complesso, mettendo in interconnessione situazioni apparentemente distanti.
Il buono o il cattivo funzionamento delle istituzioni, del sistema sanitario, della scuola e dell’università, ad esempio, non ha infatti validità solo per sé stesso ma si riflette e contribuisce a determinare la qualità dell’intero sistema, rendendolo appunto più o meno competitivo.
Perché questo ragionamento è importante?
Perché chiama in causa non solo gli operatori economici ma l’intera società. Pretendere infatti un migliore funzionamento della sanità non vuol dire solo poter evitare, in caso di necessità, un ‘viaggio delle speranza.
Pretendere che la scuola non si limiti a distribuire diplomi e l’università lauree ma conferisca a questi titoli di studio uno spessore qualitativo apprezzabile, non vuol dire solo evitare che i propri figli vadano a studiare fuori.
Ma soprattutto mette in evidenza tutte le manchevolezze della cosiddetta classe dirigente nel suo insieme, non solo quella politica, quella che appunto dovrebbe avere una visione complessiva del nostro territorio ed essere in grado di effettuare le scelte più adeguate ed efficaci per l’intero sistema e non solo per la propria ‘parrocchia’ di appartenenza.

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