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Con il fiato sospeso

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Quattro anni di ricerca stanno alle spalle del film ‘Con il fiato sospeso‘. Lo ha raccontato la stessa regista, Costanza Quatriglio, ieri sera, al pubblico che affollava la sala del Cinema King dove il film viene proiettato in questi giorni, in prima nazionale.
Una ricerca, quella della regista, motivata non solo dall’esigenza di documentarsi, ma anche da quella -non meno importante- di trovare il linguaggio più adatto, la forma più opportuna per raccontare una vicenda così drammatica e toccante, senza andare mai sopra le righe.
Per conoscere i fatti Quatriglio ha letto il memoriale di Emanuele Patanè, incontrato i suoi familiari e quelli di altre due studentesse, Agata e Marianna, ascoltato le testimonianze di studenti, dottorandi e docenti, e ha frequentato il laboratorio di chimica della Sapienza per conoscere e capire come è fatto e come funziona un laboratorio chimico.
Nel contempo non ha smesso di interrogarsi su come raccontare un fatto così grave, una sofferenza così insopportabile, senza pretendere di dare risposte, senza ritenere di avere in pugno la verità, anzi seminando dubbi e interrogativi.
In un contesto, anche cinematografico, basato sulla velocità, la giovane regista non ha avuto fretta, ha lasciato che le domande maturassero innanzi tutto dentro di lei, ha compiuto un percorso che ritiene il più difficile tra quelli fino ad oggi intrapresi.
E mentre lei cercava il ‘bandolo della matassa’, si faceva sempre più difficile trovare chi investisse in questo progetto e ‘Con il fiato sospeso’ è stato autoprodotto con l’intervento della Jolefilm solo in fase di post produzione.
La scelta finale della regista è stata quella di realizzare un film di finzione, senza spostarsi sul documentario, come le veniva suggerito da più parti. Paradossalmente, proprio l’interpretazione di un attore, a maggior ragione quella di un’attrice bravissima, perfettamente calata nel suo ruolo, poteva -dice Quatriglio- rendere in modo efficace il sentimento provato dalle vittime, dai loro parenti e amici, il loro dolore insostenibile, drammaticamente lacerante, ben diverso da quello spettacolarizzato e ‘recitato’ a cui ci hanno abituato i reality.
Solo il breve intervento del papà di Emanuele, con le sue foto del figlio e la sua voce rotta e stanca, riporta ad una realtà vissuta e ci dice -sono parole di Quatriglio- “che non stiamo sognando”.
La finzione permette al film di acquistare anche un valore simbolico, perchè nei ‘fatti di farmacia’ Quatriglio parla non solo di una intera generazione di giovani ma anche di se stessa come artista.
Il personaggio di Anna, la cantante rock amica della protagonista, può essere letto come un alter ego della regista. E’ un’artista ‘estrema’ che ha lasciato l’università e ha fatto dell’arte la sua vita. Appare sin dalla prima scena del film ed è un personaggio importante sebbene possa apparire talora un po’ incongruo.
Non è mai rappresentata insieme all’amica Stella (la protagonista), che d’altra parte appare per lo più in primo piano, come un volto senza corpo, un ‘angelo‘ interrogato da una voce fuori campo.
Il fatto è già avvenuto, e Anna -come Quatriglio– vorrebbe capire, conoscere la ‘verità’. Cerca di entrare, senza riuscirci, dentro l’istituto ormai sigillato di Farmacia, batte a quelle porte chiuse e si accanisce sulla macchinetta del caffè che assorbe le sue ultime risorse, senza darle nulla in cambio (una metafora delle vicissitudini legate alla produzione del film?), ma rimane inesorabilmente fuori, non ha la ‘chiave’ per entrare in quel luogo che custodisce la ‘verità’. Non ne ha gli strumenti tecnici, perché non è un chimico, e comunque la ‘verità’ rimane inconoscibile
Le domande poste, con questo film, da una regista che vuole fare cinema non solo per passione, ma anche per “essere cittadina”, riguardano non solo la realtà del laboratorio di Farmacia di Catania, ma la società tutta.
“Tu sei come una figlia per me”. Così diceva a Stella il suo professore. Lei stessa lo racconta e si interroga. Poteva mandarla consapevolmente alla morte? Potevano farlo altri professori che mandavano i loro figli nel laboratorio? E attorno al suo racconto, ai suoi dubbi, ruotano le scene con i liquidi tossici sversati nei lavandini, i giovani in camice che manipolano sostanze che arrossano gli occhi e provocano malori.
Ma “se una cosa non la puoi provare, non esiste” dice ancora Stella nel film e, se l’inserviente sviene nel fare la pulizia del laboratorio, può trattarsi sempre di una coincidenza, ci possono essere altre cause, perchè “se uno deve svenire, sviene”
E, insieme ai rischi di una ricerca condotta senza i più elementari criteri di prudenza, il film racconta anche la delusione vissuta da una generazione di giovani che vede infrangersi i sogni sul proprio futuro e si rassegna al fatto che sarà il professore ad attribuirsi il merito dei risultati.

Non ‘generazione perduta’, dice Quatriglio, perchè ad essere perduta è l’Italia, un paese che congiura contro i propri figli e li uccide, nei modi più insidiosi, come emerge dal dibattito seguito in sala all’intervento della regista.
C’è, infatti, Francesca Di Mauro che racconta degli esperimenti condotti da Unifarm nell’appartamento sottostante al suo, con conseguenti esalazioni mefitiche e malesseri diffusi tra i condomini. E che, quando indaga, si sente rispondere che gli esperimenti vengono fatti ‘solo’ il venerdì…
C’è l’avvocata Marisa Falcone, presidente ADAS, che ricorda come la prima garanzia della salute (costituzionalmente garantita) debba essere un ambiente sano, ben lontano da quello in cui noi viviamo, dove malattie degenerative, autoimmuni e cancerogene sono sempre più diffuse anche in soggetti giovani e la ricerca scientifica, finanziata dalle case farmaceutiche e non dallo stato, non può certo dirsi libera.
Ecco perchè, come ha detto ancora Falcone sul film appena proiettato, “queste sono le denunce di cui abbiamo bisogno”.

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