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Con Addiopizzo per parlare di mafia al palazzo Platamone di Catania

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(cliccando sulle foto dei relatori si può ascoltare l’audio degli interventi)
Catania,Cortile Palazzo PlatamoneLa particolare faccia della mafia a Catania, poco visibile e “ingrottata” nelle istituzioni ma che ha fatto scuola, “cattiva scuola”, accumulando ingenti ricchezze. Ne parla così Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Messina, nel suo intervento all’incontro “Giustizia, riforme e antimafia”, organizzato al cortile Platamone da Addiopizzo Catania.
In un breve escursus storico il magistrato ricorda i lati oscuri di una città in cui sono stati arrestati tre magistrati e che tutt’ora non sa fare Sebastiano Arditaadeguata memoria dei suoi morti, Pippo Fava, colpevole di aver messo a nudo le implicazioni del potere, Giuseppe Lizzio, ispettore capo della sezione anti-estorsioni, Luigi Bodenza della polizia peniteziaria, sul cui omicidio ha poi fatto luce un pentito di mafia.
Ha ricordato anche gli spiragli di luce, come il tentativo di recupero della legalità intorno a Giambattista Scidà, negli anni ’90.
A parlare con la cittadinanza, oltre ad Ardita, Antonino Di Matteo, sostituto procuratore di Palermo e protagonista indiscusso del processo ancora in corso sulla trattativa stato-mafia, e Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, massimo esperto di ‘ndragheta.
Nicola GratteriNel suo intervento, improntato alla massima concretezza, Gratteri ha evidenziato i principali ostacoli al corretto funzionamento del sistema giudiziario italiano e suggerito le riforme da realizzare, basate non sui ”principi’, ma sulla convenienza. “Nel rispetto della Costituzione” ha detto “bisogna fare in modo che delinquere non sia conveniente. Oggi agli imputati fanno paura solo le accuse di omicidio e di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti”.
Per associazione mafiosa sanno che prenderanno al massimo 5 anni, una piccolezza davanti alla prospettiva di un potere indiscusso di cui disporre.
Prima di intervenire sulla legislazione relativa alla mafia, bisogna innanzi tutto modificare la giustizia ordinaria. Altrimenti rischiamo di avere una Ferrari che non si può usare perchè la strada non è ben asfaltata.
“Siamo indietro di 30 anni per quanto riguarda la tecnologia, utilizziamo ancora i fascicoli cartacei, mandiamo in giro i carabinieri per fare le notifiche invece di utilizzarli per le indagini, spendendo milioni di euro e allungando i tempi dei processi”. Inviare le notifiche per posta elettronica certificata, creare un sistema intranet che metta in comunicazione diretta la polizia giudiziaria con i detenuti sono alcune delle proposte (la cui facilità di realizzazione è quasi sconcertante), avanzate da Gratteri, che permetterebbero di risparmiare tempo e soldi.
Un altro rimedio sarebbe quello di eliminare i “reati bagatellari”, facendo sì che non arrivino in giudizio. “Non si deve fare un processo perché si è costruito un cornicione abusivo”, spiega deciso Gratteri. “Se tu hai costruito qualcosa che non è conforme al progetto, in automatico l’ufficio amministrativo te lo deve demolire (se non lo demolisci a spese tue), in casi particolari deve intervenire il genio militare. Non bisogna nemmeno discutere di questa tipologia di reato”.
Catania, Cortile Palazzo Platamone, Addio PizzoAncora. Se la prescrizione si fermasse con la condanna di primo grado, nessuno sarebbe invogliato a fare Appello e ricorso in Cassazione. In pochi anni potremmo chiudere alcune sezioni della Cassazione e fare ‘scendere’ i suoi giudici in appello. “Ci dobbiamo interessare soprattutto di reati seri”.
Ma perché delinquere conviene ancora? Perché la mafia è più credibile rispetto al passato e sul piano sostanziale dà più risposte della pubblica amministrazione. In Calabria 30 anni fa era il mafioso ad andare dal politico per offrire pacchetti di voti, oggi è il politico che va dal mafioso per chiedere voti in cambio di appalti.
Dove la disoccupazione è al 40% il capomafia può dare lavoro a 5 capifamiglia per 20 giorni prendendo un piccolo appalto per la ristrutturazione di un marciapiede. Al momento del voto queste persone voteranno per il candidato indicato dal capomafia.
Quanto alla legislazione, fa un esempio. La pena prevista dall’art. 416 bis (che punisce l’acquisizione, la gestione o il controllo di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici da parte di associazioni mafiose) è troppo bassa; addirittura ‘ridicola’ è quella prevista per il 416 ter, che punisce lo scambio elettorale politico-mafioso. Il messaggio che si manda all’opinione pubblica è che, per il mafioso, l’accordo con un parlamentare è meno grave delle mazzette che chiede ad un imprenditore.
Gratteri non si meraviglia che le imprese confiscate falliscano. La loro presenza sul mercato, fino a che sono nelle mani della mafia, è anomala. Possono ‘stracciare’ i concorrenti vendendo a prezzi più bassi e utilizzare le casse vuote per emettere scontrini che giustifichino il riciclo del denaro sporco. Fuori dal circuito illegale non potranno sopravvivere. E l’Agenzia per i beni confiscati, da Gratteri liquidata come ‘carrozzone’, non deve essere affidata a dei prefetti, che non hanno competenze manageriali e di bilancio.
Ritornando su temi più generali e guardandosi indietro per capire meglio il Saverio Lodatopresente, il giornalista Saverio Lodato ricorda che il pool di Palermo aveva contrastato la mafia militare e che fu Caselli ad affrontarne il livello politico. Il processo Andreotti provò che l’ex presidente del consiglio aveva incontrato i capimafia fino al 1981, ma l’opinione pubblica si convinse, anche per responsabilità dei mezzi d’ informazione, che Andreotti fosse stato assolto.
Spezza poi una lancia a favore del processo sulla trattativa stato-mafia, attaccato da storici, giuristi e giornalisti, anche stranieri. E ricorda a coloro che “beatificano la trattativa fatta a fin di bene”: ai tempi del terrorismo la parola d’ordine era ‘fermezza’ solo perchè il terrorismo era un “corpo estraneo, usato dal potere per regolarizzare i conflitti sociali”, mentre la mafia non è un corpo estraneo né alla società né alle istituzioni.
Nino Di MatteoAnche Nino Di Matteo dipinge un sistema mafioso ormai diventato tutt’uno con le istituzioni politiche, traditrici degli ideali di giustizia per i quali Falcone e Borsellino sono morti. Non solo il mondo politico non si mostra collaborativo nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine, ma ostacola sistematicamente le indagini volte a far luce sui collegamenti tra cosa nostra e i poteri statali forti.
Poichè il nesso tra reati di mafia e reati contro la pubblica amministrazione è sempre più stretto, la lotta alla mafia e quella alla corruzione, afferma, dovrebbero essere due facce della stessa medaglia.
Corruzione, concussione, abusi d’ufficio, turbative d’asta sono il grimaldello attraverso il quale la mafia s’impadronisce della pubblica amministrazione. Eppure, a fronte di strumenti adeguati per sanzionare i reati di ordinaria criminalità mafiosa, sussiste una sostanziale impunità per la corruzione.
Da sempre il paravento dietro cui ripararsi è stato l’attesa della sentenza definitiva. Ciò che turba maggiormente Di Matteo è che oggi le sentenze definitive ci sono, su Andreotti, Dell’Utri, Berlusconi, eppure ciò non è stato sufficiente a bloccare le attività politiche di chi è indiscutibilmente colluso con la mafia.
Si finisce dunque per scaricare sulle spalle della magistratura la soluzione del problema, salvo poi attaccare i giudici perchè hanno invaso il terreno della politica.
”Sogno una politica che non faccia passi indietro, ma vera antimafia, come quella di Pio La Torre” conclude Di Matteo, aprendo ad una prospettiva di speranza. Le cose possono cambiare. Basta “non essere timidi nel denunciare”, non lasciarsi trascinare dalla rassegnazione, attitudine tanto cara a noi siciliani, e avere la volontà e la libertà di compiere le modifiche normative necessarie, difendendo sempre l’obbligatorietà della sanzione penale, l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e l’indipendenza della magistratura.
E’ stato un momento di incontro tra cittadini e istituzioni che -grazie all’iniziativa di AddioPizzo Catania- ha scardinato, seppur per poche ore, il sentire comune diffuso che lo Stato sia un unicum omogeneo dal quale stare alla larga. Ad ascoltare i magistrati un pubblico numeroso, al quale hanno fatto da cornice, in fondo al cortile, gli striscioni di protesta dell’azienda di impiantistica LA.RA, società confiscata alla mafia 16 anni fa, che oggi è a rischio liquidazione, ma questa è un’altra storia che speriamo presto di raccontare.

3 Comments

  1. “Siamo indietro di 30 anni per quanto riguarda la tecnologia, utilizziamo ancora i fascicoli cartacei, mandiamo in giro i carabinieri per fare le notifiche invece di utilizzarli per le indagini, spendendo milioni di euro e allungando i tempi dei processi”.
    Ecco perche’ la mafia domina perche’ a differenza dei politi, la mafia fa le sue decisioni, le porta a compimento in maniera celere e fa pagare a quelli che non rispettano le regole.
    Cosa ci vuole per implementare le strategie che il Signor Gratteri ha accenato? Ancora quanti morti, milioni di tasse sprecate ci vogliono?
    Rispetto assoluto per quelli che si dedicano alla lotta contro la mafia. Hanno poco supporto dagli enti governativi e rischiano tanto. Buona fortuna.

  2. Tutti interventi di alto profilo, ma quello di Gratteri è stupefacente per la concretezza. Bisognerebbe tornarci su…
    Grazie per l’audio.

  3. anche a me piacerebbe leggere il commento di Gratteri. Ma cosa ha grattato? LO ha detto che le leggi antiraket sfornate dal parlamento sono una bruttura ? Le ha criticate ?

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