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Fava racconta San Berillo (1)

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La miseria e la virtù
Catania / San Berillo, vent’anni fa
di Giuseppe Fava (I Siciliani 2/4/86)

La storia del vecchio San Berillo e del suo ‘risanamento’ fu raccontata da Giuseppe Fava in “Processo alla Sicilia”, inchiesta giornalistica in trentacinque puntate che, nell’estate-autunno 1966, apparve sulle pagine del quotidiano catanese La Sicilia. Allora erano trascorsi già dieci anni dall’inizio dei lavori per i quali un intero quartiere era stato stravolto, deturpato e in parte cancellato e i suoi abitanti “deportati”.
“Entro un anno questa tetra distesa di macerie dovrebbe essere ricoperta da una duplice, gigantesca fila di palazzi” scriveva Fava cinquanta anni fa. ‘I Siciliani‘ hanno riproposto quello scritto nel 1986 e noi, a nostra volta, lo ripubblichiamo, iniziando oggi con la prima parte, in cui Fava non fa solo “colore”, non parla solo di “luci rosse” ma anche di miseria, infelicità, dolore, degrado e abbandono.
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Su trentamila abitanti del vecchio San Berillo, almeno mille erano “le donne di vita”, venivano da tutte le parti della Sicilia e della Calabria, ma anche dalla Toscana,dal Veneto e dall’Emilia.
Talune erano contadine, avevano imparato a depilarsi le sopracciglia e dipingersi le labbra a forma di cuore, ma avevano ancora le mani come la cartavetrata. Avevano una risata ruvida e grassa, qualche risata così deve essere rimasta impigliata nelle vecchie carte da parato delle case, ed ora che demoliscono i muri, si stacca anch’essa con un rumore di calcinacci.
Tutte le ‘maisons’ della città erano adunate in questo incredibile quartiere, alcune erano famose in tutta la Sicilia orientale e la gente faceva cento chilometri di treno da Caltanissetta o Valguarnera. “Vado a Catania a farmi visitare dal professore Lino, dal professore Condorelli” dicevano gli adulti alla famiglia in ansia: invece stavano interi pomeriggi suin divani di quelle case dai nomi incredibili, “La Moderna”, “La Suprema”.
Fino dai tempi di Tolouse Lautrec, l’oleografia voleva che le maitresse fossero grasse, bionde, ciniche e vecchissime ed in effetti nel vecchi San Berillo erano mastodontiche, con la parrucca bionda, bocchini d’oro lunghissimi e minuscoli cagnolini in grembo. Erano rigide e severe come dirigenti di aziende. Tra gli studenti dell’università la zia Mattia o la signora Nella G. erano più famose di qualsiasi professore o luminare dell’ateneo.
Fanno parte della storia di Catania, perchè non parlarne? Fanno parte del tempo della vita di centinaia di migliaia di uomini; la storia di una città è anche questa, non solo quella di Vincenzo Bellini, Peppa la Cannoniera e il sindaco De Felice.
Da qualche parte ci deve pur essere un libro dove i fatti umani restano, e su quel libro deve esserci anche il vecchio San Berillo.
Non solo per il piacere che vendeva a mezza Sicilia, ma soprattutto per l’orrore che rappresentava, per la fame, la miseria, il dolore che c’erano dentro, per le malattie che vi formicolavano su per i muri come scarafaggi, e la corruzione dell’anima umana, il fango orribile che copriva le strade, la degradazione delle case senza servizi di decenza, delle stanze dove gli esseri umani si ammucchiavano cinque o sei in un letto, l’umidità, il fetore, la povertà definitiva, l’infelicità sconosciuta di quelle migliaia di bambini che abitavano laggiù ed era come se vivessero sottoterra, e Catania camminasse sopra le loro teste.
Non c’era forse in tutta l’Europa un quartiere più tragico. Per cento anni fu sempre così, come un groviglio di mosche e vermi che divorassero instancabilmente il ventre di Catania.

(continua)

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