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Trivelle sì o no, vademecum per capire

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Anche in questo referendum bisogna votare sì per dire di no, per abolire cioè una norma. Il quesito del referendum, espresso in modo difficile, in realtà è semplice.
La Legge di Stabilità 2016 ha vietato il rilascio di nuove concessioni entro le 12 miglia, ma ha prorogato fino ad esaurimento delle risorse (vale a dire del petrolio o gas presente nel giacimento) le concessioni già in vigore.
Chi ha proposto il referendum e chi voterà sì, intende abrogare la propoga e ripristinare i vecchi vincoli, lasciare cioè che le concessioni decadano via via. alla loro naturale scadenza.

La proroga è stata introdotta in violazione delle norme europee, che prevedono concessioni governative della durata massima di 30 anni, come del resto avveniva anche in Italia fino al 31 dicembre 2015.
Proviamo oggi a capire chi si avvantaggerà dell’eventuale insuccesso del referendum e perchè noi cittadini comuni dovremmo quanto meno conoscere meglio i termini della questione per poter decidere, come si suol dire, in scienza e coscienza.

Petrolio e gas, un regalo ai concessionari

Quando si parla delle riserve di gas e petrolio in territorio Italiano, in grado di soddisfare il fabbisogno nazionale (per 2 o per 50 anni, dipende da chi scrive…) sembra sottinteso che quel petrolio sia lì pronto per essere pompato ed utilizzato gratuitamente da un nostro serbatoio.
E’ un grosso equivoco, o una deliberata menzogna, perchè il petrolio ed il gas, come le altre risorse minerarie, appartengono allo stato italiano solo finchè sono sottoterra.
Quando si dà la concessione, il petrolio estratto diventa di proprietà del concessionario che ne fa quel che vuole, può anche esportarlo integralmente nel caso che un compratore straniero gli faccia un buon prezzo.
Può anche venderlo alla stessa Italia, che comunque lo acquista come se provenisse dall’estero.
Il prezzo minimo è quello necessario a coprire il costo del denaro (prestiti bancari, obbligazioni) per costruire gli impianti, affrontare i costi di esercizio, pagare tasse, royalties ed eventuali assicurazioni sui rischi.
L’Italia può trovare altri fornitori (es l’Arabia, la Libia) che gli fanno un prezzo più basso e quindi trovare più conveniente non comprare il petrolio estratto nel suo territorio.

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Per l’Italia solo spiccioli

In teoria, guadagna i soldi delle royalties. Il concessionario (una società come la Total o la Exxon) che estrae gli idrocarburi paga infatti allo stato una somma equivalente ad una percentuale del prodotto estratto, la royalty, che in Italia è del 10% per il gas e del 7% per il petrolio.
Nel nostro paese esiste anche una franchigia, vale a dire una esenzione dal pagamento della royalty, nel caso in cui si estragga una quantità di petrolio inferiore alle 50 mila tonnellate o meno di 80 milioni di metri cubi di gas.
Sotto questi livelli il concessionario non paga un centesimo e in pratica porta via gratis la nostra risorsa energetica lasciandoci solo il danno ambientale ed i rischi.
trivella, inquinamento mareA rimanere sotto il livello della franchigia sono la maggior parte delle società concessionarie. Secondo una ricerca di Legambiente, pubblicata sul La Stampa, “nel 2015 su un totale di 26 concessioni produttive solo 5 di quelle a gas e 4 a petrolio, hanno pagato le royalties”.
Quando Galletti, ministro dell’ambiente, afferma che i paesi “più verdi”, come Norvegia e Gran Bretagna, sono quelli che trivellano di più, dimentica che questi sono anche i paesi che impongono un elevato prelievo fiscale sulle attività di esplorazione e produzione di idrocarburi.
Parliamo dell’82% in Gran Bretagna e solo (!) del 78% in Norvegia, dove però si pagano anche i canoni di concessione. In Danimarca, dove non esistono più royalties, il prelievo fiscale arriva fino al 77%.
In Norvegia inoltre lo Stato è sempre azionista al 50 % delle compagnie che estraggono il petrolio, ma di inquinamenti ed eventuali disastri resta unico responsabile il partner privato .
Noi invece, per ‘aiutare’ i concessionari, permettiamo loro anche di dedurre le royalties dalle tasse.
E facciamo pagare canoni molto bassi per la “prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio”: 3,59 euro a kmq per le attività di prospezione, 7,18 per i permessi di ricerca, fino a 57,47 per la ‘coltivazione’.
Altri stati europei  prevedono almeno 1.000 euro/kmq per la ricognizione geologica del terreno, 2 mila per le attività di ricerca e fino a 16 mila per la coltivazione.
Considerato che bisognerebbe comunque valutare se valga la pena far distruggere il proprio ambiente, e attività come turismo e pesca, in cambio di soldi per le casse dello Stato, quest’ultimo potrebbe incassare oltre 300 milioni di euro mentre invece ne incassa oggi circa un milione.

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Ai petrolieri la dismissione costa, meglio la proroga

Con la guerra dei prezzi che l’Arabia sta facendo ad Iran e USA, ovvero con i prezzi attualmente così bassi del petrolio, ci sono già stati negli States fallimenti di società e chiusura di pozzi.
Per lo stesso motivo nessuno ha più interesse ad investire nella costruzione di nuove trivelle offshore per giacimenti di piccole dimensioni. Diversi concessionari hanno, infatti, spontaneamente rinunciato alle concessioni, non certo per paura dei referendum come è stato scritto su diversi giornali.
Diverso è il discorso per le trivelle esistenti. Non c’è il grosso investimento iniziale che richiede capitali in prestito e quindi pagamento di interessi alle banche. C’è solo il costo del pompaggio e delle royalties quando si supera la franchigia, per questo c’è interesse a proseguire fino ad esaurimento del giacimento.
Vi è un altro interesse specifico -e non dichiarato- a volere la proroga della concessione, la cancellazione dell’obbligo da parte del concessionario a restituire di luoghi dopo averli bonificati.
E’ previsto, infatti, dalla legge che, al termine della concessione, il pozzo sia messo in sicurezza, la piattaforma smantellata e lo stato dei luoghi ripristinato: un’operazione complessa e costosa.
Sul sito dell’Eni, vengono spiegate le operazioni previste per la dismissione degli impianti offshore: rimozione non solo delle piattaforme ma anche delle strutture “per la compressione e il dispacciamento”, delle condotte che collegavano la piattaforma ai centri di trattamento a terra, etc.
Si tratta di operazioni molto delicate che richiedono personale specializzato, anche per evitare pesanti impatti ambientali. Bisogna anche individuare siti idonei sia per il conferimento dei materiali non riutilizzabili sia per lo smaltimento finale dei prodotti potenzialmente inquinanti.
Le società, pur di non affrontare i costi della dismissione, preferiscono accontentarsi di una produzione minima che garantisce di tenere in vita il giacimento il più a lungo possibile ed è a costo zero perché al di sotto della franchigia.
Per avere un’idea dei costi di smantellamento, basti citare il caso del Regno Unito dove è in atto la procedura di dismissione degli impianti off-shore del Mar del Nord. Un’operazione che nel complesso durerà 30 anni con costi che si aggirano intorno ai 47 miliardi di dollari.
Difficoltà e costi dell’operazione sono tali che sono state immaginate e proposte soluzioni alternative allo smantellamento, come il riutilizzo in loco delle piattaforme dismesse come barriere artificiali, parchi eolici, alberghi di lusso. Altra possibilità suggerita è quella di affondarle in loco per trasformarle in “hotspot di biodiversità marina”, cioè oasi di ripopolamento biologico e turismo costiero.
Tutto pur di di evitare i costi dello smantellamento. Rimane aperto, soprattutto in assenza di controlli, anche il problema della messa in sicurezza delle piattaforme, alcune delle quali hanno più di 40 anni e quindi elevate probabilità di rischi rilevanti (come quello che distrusse la Paguro facendo 3 morti).

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La bufala della perdita dei posti di lavoro?

Uno degli spettri agitati per indurre a votare no al referendum sulle trivelle è quello della perdita di posti di lavoro nel caso in cui vincesse il sì.

Il premier Renzi parla addirittura di 11.000 posti di lavoro a rischio in caso di vittoria del sì.
Assomineraria, “associazione di categoria per industrie estrattive, petrolifere, di servizio”, dichiara però 13mila occupati nel settore estrattivo in tutta Italia (tra attività a terra e a mare, dentro e fuori le dodici miglia).
Come è possibile che si perdano più di diecimila posti, in caso di ripristino della normale scadenza delle concessioni entro le 12 miglia, se gli occupati sono complessivamente, in tutto il settore, poco di più? E’ semplicemente assurdo.
Comunque bisogna precisare che, anche se vincesse il sì, le piattaforme situate entro le 12 miglia non verrebbero chiuse ma continuerebbero ad operare come prima, fino a conclusione della concessione.
A conferma dell’entità dei numeri, l’Isfol, ente pubblico di ricerca sui temi di formazione, politiche sociali e lavoro, informa dell’esistenza di 9mila dipendenti in tutta Italia nell’intero settore di estrazione di petrolio e gas.
E descrive, soprattutto, un settore già in crisi da tempo.
Chi paventa la perdita di posti di lavoro per colpa del referendum non dice, infatti, che il settore dell’estrazione di gas e petrolio è già in crisi nel mondo e in Italia da diversi anni. Non a caso, negli ultimi decenni, si è avuta una consistente diminuzione della produzione da piattaforme in mare.
Uno degli ultimi rapporti Deloitte, società di revisione e consulenza, avverte che il 35% delle compagnie petrolifere è ad alto rischio di fallimento nel 2016 a causa del crollo del prezzo del petrolio e di un alto debito accumulato.
Se vincesse il sì, non subito ma alla scadenza delle varie concessioni, qualche posto di lavoro si perderebbe, nell’ordine della decina, non di più.
Bisogna considerare, infatti, che le piattaforme necessitano di un alto numero di occupati solo nella fase del montaggio. Successivamente la manodopera è necessaria soprattutto per saltuarie attività di manutenzione, essendo molte delle operazioni effettuate in automatico, con un controllo a distanza.
Nessuno invece si preoccupa di dire che per garantire un futuro occupazionale duraturo bisogna investire in innovazione industriale e in una nuova politica energetica e che si potrebbe creare più occupazione (Legambiente parla di almeno 600mila posti di lavoro) se si decidesse di puntare sulle rinnovabili.

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4 Comments

  1. votare SI ha un duplice significato perchè esprime opposizione all’uso delle risorse naturali oltre il limite della tollerabilità e perchè manifesta una forte e visibile opposizione alla politica dell’attuale classe dirigente la cui banalità. stupidità e ignoranza ha superato ogni limite.

  2. Credo che questo articolo di Argo sia ben lontano dall’essere un “vademecum per capire”. Mi sembra piuttosto un’esposizione di ragioni per votare “sì”. Vorrei allora riequilibrare la discussione. Inizio mettendo in dubbio una serie di affermazioni fatte:
    (1) Viene affermato che il petrolio/gas estratto diventa di proprietà dell’estrattore, che può venderlo all’Italia “come se provenisse dall’estero”. Eppure sembra chiaro che una buona maggioranza degli impianti è gestita da ENI (http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/03/24/news/referendum-trivelle-10-cose-da-sapere-per-votare-informati-1.255743 o anche http://unmig.mise.gov.it/unmig/strutturemarine/limite.asp?on=true), di cui lo Stato è azionista di maggioranza con circa il 30% delle azioni (http://www.eni.com/it_IT/faq/azionisti/azionista-maggioranza-relativa/faq-azionisti4-quale-azionista-maggioranza.shtml). Il paragone con la compravendita “come dall’estero” non sembra calzante.
    (2) Viene affermato (senza fonte) che lo Stato otterrebbe circa un milione dalle royalties. Sebbene sia giusto denunciare come ogni fonte proponga numeri molto diversi, l’Espresso parla di un gettito di 38 milioni proveniente dalle piattaforme interessate dal referendum (http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/03/24/news/referendum-trivelle-10-cose-da-sapere-per-votare-informati-1.255743). L’Espresso fa riferimento a dati del Ministero per lo Sviluppo Economico, sebbene nel link di riferimento, presente nell’articolo, i dati concernono le royalties provenienti dall’insieme delle piattaforme italiane.
    (3) Si omette di riferire che lo Stato, al di là delle royalties – obiettivamente basse – sembra tassare al 63,9% le società petrolifere (dallo stesso articolo sull’Espresso il cui link è qui sopra). Devo pero evidenziare che il link della fonte dell’Espresso, che trovate nell’articolo, non è funzionante.
    (4) Si afferma (senza fonte), che la perdita di posti di lavoro derivante dalla vittoria del sì sarebbe “nell’ordine della decina”. Sebbene anche qui i numeri varino, questo sembra troppo ottimista. Primo, le fonti di Argo non sembrano affidabili: Assomineraria non dice di avere 13,000 occupati nel settore estrattivo, ma bensì 10,000 (http://www.assomineraria.org/settori/attivita-filiera-upstream/). Questo sembrerebbe avvalorare la linea di Argo – se non fosse che l’associazione aggiunge anche che ci sono ulteriori 19,000 addetti facenti parte dell’indotto esterno al settore, più 85,000 addetti in imprese parapetrolifere. Insomma, l’indotto va tenuto in considerazione quando si parla di perdita di posti di lavoro.
    Queste precisazioni mi sembrano d’obbligo. Il quadro che emerge, in ogni caso, è quello di un referendum il cui impatto pratico è estremamente ristretto. Argo non parla di rischi ambientali o di turismo – per fortuna, dato che anche su questi punti non è affatto chiaro che le piattaforme di estrazione abbiano gli effetti nefasti di cui si parla. Questo articolo su National Geographic offre un resoconto abbastanza equilibrato: http://www.nationalgeographic.it/ambiente/2016/04/06/news/referendum_abrogativo_trivellazioni-3032921/. Soprattutto, l’apporto di petrolio/gas dalle piattaforme offshore permette di limitare l’impiego delle grandi navi petroliere che sono responsabili di grave rischio di inquinamento (è significativo che il grande disastro del Golfo del Messico fosse dovuto proprio a una di queste navi, non a una piattaforma di estrazione; mentre l’area dove la piattaforma italiana “Paguro” è affondata sembra essere diventata area di ripopolamento marino).
    La vera questione è se questo referendum abbia o meno una funzione politica/simbolica. Stiamo votando per esprimere il nostro supporto alle energie rinnovabili tout court? Io credo di no. La politica energetica di un paese è molto complessa per deciderla in un referendum dall’ambito così ristretto. Andiamo a votare consapevoli che il risultato non farà una grande differenza – che vinca il sì o il no.
    Ognuno sembra dare dati così favorevoli alla propria linea che è scoraggiante non averne di obiettivi. Sarebbe stato bello se Argo si fosse distinto dalla grande maggioranza dei media, cercando di offrire un’esposizione imparziale.

  3. “Quando si parla delle riserve di gas e petrolio in territorio Italiano, in grado di soddisfare il fabbisogno nazionale”, sembra che siano lì pronti per essere pompati ed utilizzati da un nostro serbatoio.
    Equivoco o menzogna? perchè il petrolio ed il gas, come le altre risorse minerarie, appartengono allo stato italiano solo finchè sono sottoterra.
    Già…

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