/

Priulla, gli stereotipi che odiano le donne

2 mins read

‘Ringrazio Patrizia che ha permesso la pubblicazione di un libro senza errori‘. Chi ringrazia, a fine incontro, è Graziella Priulla autrice di “Viaggio nel paese degli stereotipi. Lettera a una venusiana sul sessismo”, pubblicato da Villaggio Maori, Catania.
Se qualcuno avesse detto che Patrizia aveva fatto un “lavoro con le palle”, l’intera serata avrebbe perso di significato. Infatti, la presentazione del libro è stata un’importante occasione (il pubblico occupava quasi tutti i posti disponibili della Camera del Lavoro) per riflettere e fare il “punto”, a partire proprio dagli stereotipi, sui rapporti fra i generi.
Ha introdotto la discussione Goffredo D’Antona, avvocato, tra i promotori, nelle scorse settimane, a Catania, di una manifestazione contro il femminicidio con la quale si è voluta esprimere la vergogna degli uomini per la violenza subita dalle donne.
In premessa ha sottolineato come nel linguaggio quotidiano, e nel senso comune, quando si vuole insultare si utilizzano termini che colpiscono le donne (figlio di..), mentre, al contrario, definire una donna “maschiaccio” viene ritenuto un complimento.
Per non parlare della difficoltà nel declinare secondo il genere le stesse professioni. Non a caso maestra è accettato da tutti, mentre avvocata, ministra, ecc. trovano quasi insuperabili resistenze.
Ciò, però, che per il relatore è insopportabile, quando ci si trova davanti a una violenza, è il tentativo di rovesciare ruoli e responsabilità.
Le indagini riguardano, quasi sempre, la parte offesa: perché la donna era vestita in un certo modo, perché si trovava in quel luogo… Sino al punto che in un recente scandalo, quello delle cosiddette “baby squillo”, i media hanno raccontato tutto sulle ragazze coinvolte, tacendo, sostanzialmente, sui colpevoli, su coloro che avevano commesso il reato. Maschi “irreprensibili”, bravi padri di famiglia, spesso liberi professionisti.
Graziella Priulla (per tanti anni docente universitaria di Sociologia dei processi culturali e comunicativi a Catania) ha premesso che nello scrivere il saggio è partita dalla constatazione dei tanti, troppi, stereotipi che sull’argomento dominano linguaggio e pensieri, anche tra le giovani generazioni. sui colpevoli
Proprio perché viviamo in un mondo che continua a essere visto con occhi maschili, per cui, ieri come oggi, la definizione di donna presente nei vocabolari rimane: femmina dell’uomo.
Mentre a scuola avvengono, anche, dialoghi come questo: ”Signora maestra, come si forma il femminile? ”/ “Partendo dal maschile: alla o finale si sostituisce semplicemente una a” /  “Signora maestra, e il maschile come si forma?”/ “Il maschile non si forma, esiste”.
E se ieri (età giolittiana) il sistema elettorale poteva essere definito a suffragio universale nonostante le donne non potessero votare, oggi continua la separazione dei modelli di riferimento.

Nell’uovo di pasqua trovi le sorprese per le bambine e quelle per i bambini, e così per i colori delle tutine dei neonati, e così quando in cartoleria ti chiedono se il quaderno che devi comprare è per un maschietto o per una femminuccia.
E così in televisione troviamo le veline, le letterine e in alcuni libri delle scuole elementari la lettera c per le bambine è legata all’immagine di un cagnolino, per i bambini a quella di un cane.
E, più in generale, nei libri di scuola è stata operata una vera e propria cancellazione della presenza femminile.
Nelle stesse rilevazioni statistiche la donna che non lavora viene indicata come casalinga, il maschio è disoccupato.
Ed è l’aver introiettato tutto questo che, determinando processi di omologazione e standardizzazione, ha contribuito a creare un clima di violenza, quel clima che permette di definire uno schiaffo come una “carezza veloce”, che fa uccidere “per amore”.
Un clima che, purtroppo, non coinvolge i soli maschi. Gli stereotipi, ha concluso la relatrice , sono l’immagine di un mondo cui ci siamo adattati, sono l’anticamera dei pregiudizi che conducono alla discriminazione, ed è perciò decisivo analizzarli e destrutturarli.
 

1 Comment

  1. non è offensivo nè limitativo l’essere definite casalinghe.Per l’uomo , l’esere disoccupato lo relega nell’angolo della forza bruta. Il casalingo è più tenero e comprende meglio di un arrabbiato disoccupato.Il lavorto, nel gergo capitalistico, non nobilita. Lo schiavizza.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Gli ultimi articoli - Cultura