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Pretacci catanesi

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‘Essere testimone mite e coraggioso del Vangelo’: questa la preghiera che, con voce titubante e rotta dall’emozione, padre Pippo Di Bella ha pronunciato per se stesso, la sera in cui ha fatto memoria dei cinquanta anni della sua ordinazione sacerdotale.
Non sono molti quelli che lo conoscono, questo piccolo prete, brontese di origine, che dal 1965, mentre a Roma si chiudeva il Concilio Vaticano II, ha avuto affidata la parrocchia di S. Michele in S. Nullo, allora un quartiere della periferia catanese, che stava tuttavia per uscire dalla sua condizione di sobborgo rurale per essere proiettato in un vorticoso quanto disordinato sviluppo edilizio.
Fa parte dunque di quel piccolo drappello di preti – p. Greco, p. Piro, recentemente scomparsi, p. Gliozzo, p. Apa, p. G. Licciardello – che il rinnovamento della chiesa suggerito dal Concilio lo hanno preso e continuano a prenderlo sul serio, non nei suoi aspetti esteriori ed effimeri, ma in quello sostanziale della centralità della Scrittura e dell’Eucaristia, nella scelta di una chiesa povera.
La sua storia, anch’essa piccola e semplice, ma solo in apparenza, vale tuttavia la pena di essere raccontata. Pippo resta infatti ormai uno dei pochi preti a non avere una chiesa, intesa nel senso della struttura, così come siamo abituati ad immaginarla. E questo per un motivo molto semplice: si è sempre rifiutato di frequentare le segreterie politiche di coloro che avrebbero potuto aiutarlo a trovare i soldi necessari.
Non è che non abbia mai avuto un luogo in cui celebrare l’Eucaristia. Nei primi anni del suo ministero, anzi, ha forse avuto una delle più belle chiese, ricavata, in perfetto accordo con il quartiere in cui sorgeva, da un frantoio di olive ormai in disuso e abbellita da decorazioni che alcuni artisti suoi amici gli avevano regalato. Un piccolo gioiello!
La popolazione della parrocchia, in rapida crescita a partire dagli anni Novanta, richiedeva, però, un locale più ampio e la Curia aveva procurato poco distante un terreno in cui intanto era stata già costruita in economia una canonica con, al piano terra, un ampio salone in cui era stata trasferita, all’inizio degli anni Ottanta, la chiesa: molto meno poetica e spirituale della prima, ma più adeguata alle necessità nuove.
Il terreno era sufficientemente ampio per poter ospitare una chiesa vera e propria, ma, appunto, occorreva un padrino politico che seguisse la faccenda e questo p. Di Bella non lo ha mai voluto cercare, pagando forse un prezzo salato anche a causa del dissenso di molti suoi parrocchiani che non condividevano, forse perchè non la capivano, questa scelta.

Alla fine, la trovata geniale: con una spesa assolutamente esigua, al novanta per cento finanziata da donazioni e prestiti senza interesse da parte di amici, è stato costruito, con tralicci in ferro zincato e coperture isolanti, un grande capannone, smontabile in qualsiasi momento e antisismico, molto sobrio ma confortevole.
Pippo Di Bella lo chiama con legittimo orgoglio: la chiesa-tenda, a voler rappresentare in modo tangibile la condizione di ‘felice precarietà’ che la chiesa deve testimoniare nel mondo, non accettando di sedere al tavolo dei potenti, per poter restare libera di annunciare a tutti gli uomini l’Evangelo e solo l’Evangelo.
Non sembra cosa da poco, specie in un momento in cui troppo spesso il Vangelo è derubricato a bioetica o a religione civile

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