Baarìa

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baaria_210 L’uscita nelle sale cinematografiche dell’ultimo film di G. Tornatore è stata accompagnata da un battage pubblicitario notevole, sia per il ricchissimo cast di attori che lo correda,sia perché il film è candidato a rappresentare l’Italia nella notte degli Oscar.. Molti ingredienti dell’opera non sono nuovi nella filmografia di Tornatore, a cominciare dalla focalizzazione sul bambino, che dovrebbe – spiccando il volo sulla città- favorire il bisogno del regista di trasfigurare una materia per tanti versi inamena. In realtà questo ritorno all’infanzia è l’occasione per restituirci una Sicilia arcaica, agro-pastorale, dove neanche ai bambini si fanno sconti nelle scommesse con gli adulti: per guadagnarsi la paga nella raccolta delle olive, bisogna aver riempito non meno di dieci panieri e persino gli animali ch’essi portano al pascolo contendono loro il pane quotidiano. La Sicilia di questo film è la stessa terra effigiata in “Nuovo cinema Paradiso”, una terra da cui è meglio fuggire prima possibile, così come Bagherìa è uno paese speciale dove “un principe mezzo pazzo ha fatto uomini che sembrano mostri e mostri che sembrano uomini”.
La mostruosità potrebbe a prima vista connotare l’universo osservato dagli occhi infantili, che ora osservano strabiliati il fabbro-bruto, che si muove con movenze da gorilla ed emette suoni inarticolati, ora assistono in piazza a uno spettacolo da baraccone dove si esibisce un uomo capace di sollevare coi denti un’enorme incudine; nel fotogramma successivo viene inquadrato il muso di un asino, quasi a suggerire l’imbestiamento a cui la condizione umana è sottoposta a Baaria: persino nei giorni di festa l’abbuffata pantagruelica degli spaghetti scodellati direttamente nella madia accomuna l’ingordigia degli uomini a quella dei maiali. La naturale vicinanza col mondo animale solo raramente trova toni di tenerezza, come nella scena in cui Mannina dalla terrazza mostra quattro micini, quasi a prefigurare la sua vita di madre.
A fatica viene fuori un quadro d’insieme in un film la cui sintassi narrativa è volutamente frammentata e puntillistica. Brevissime e agili scene con un uso molto parsimonioso della parola dovrebbero delineare nelle intenzioni di Tornatore un affresco coerente della Sicilia a partire dal declino del fascismo fino al boom economico. Si veda la macchietta dell’assessore all’urbanistica cieco, e perciò costretto a mettere “le mani sulla città”, il quale miracolosamente riacquista la vista grazie a una pingue bustarella.
Anche le due scene di massa in cui l’ambizione di qualche altro regista si cimenterebbe con toni epici, qui si esauriscono in due quadri, quello del lutto collettivo per i morti di Portella delle ginestre, chiara reminiscenza di Pellizza da Volpedo, e quello sull’occupazione delle terre, dove un bel primo piano è dedicato a un aratro che sembra uscito dalle illustrazioni di un libro di storia romana.
Suggestiva la colonna sonora di Ennio Morricone che fa da contrappunto elegiaco all’uso di un dialetto così arcaico da sembrare anche a noi siciliani una lingua straniera.
Quanto al discorso politico la prospettiva del film vorrebbe essere risolutamente riformista (vedi la lezione impartita al figlio in una delle ultime scene: “riformista è chi vuol cambiare il mondo col buon senso senza tagliare la testa a nessuno”), peccato che anche nei momenti di più intensa commozione , come la scena della morte del padre del protagonista, prima di pronunciare le fatidiche parole “La politica è bella”, tra le pieghe di un inestricabile intreccio tra pubblico e privato faccia capolino ambiguamente il rimpianto del padre di doversene andare senza aver ancora visto il figlio deputato. E se nella parte centrale del film si avverte talvolta la tentazione della nostalgia per quell’iniziazione intatta al partito – basta vedere con quanta fierezza Peppino legge sulla tessera che tra i doveri degli iscritti al primo posto occorre “avere rapporti di fraterna solidarietà con i compagni ed avere una vita onesta ed esemplare”- nostalgia che è anche vagheggiamento e trasporto per quel piccolo mondo dove la magia coesiste col radicamento politico e al senso di crisi che afferra le persone alla scoperta degli orrori dello stalinismo, soccorre l’altra identità, quella cattolica.
Tuttavia, man mano che la società siciliana cerca di modernizzarsi – e la Chiesa s’affretta a far cancellare dall’abside del duomo i volti troppo marcati, da popolani, degli Apostoli- molti personaggi non sono risparmiati dall’ossessione della ricchezza che toglie loro quella patina di dignità primordiale. In questo caso la soffocante mancanza di novità induce a pensieri di suicidio, la politica diventa burocratica routine –occorre un lungo carteggio col Ministero per vedersi riconosciuto il diritto agli assegni familiari e chi finalmente li ottiene non si volta neppure indietro per ringraziare- anche Peppino, invecchiato, cede all’antico sogno della grotta del tesoro sotto le tre rocce, ma quando riesce a colpirle con un solo lancio tutt’e tre,vede snodarsi sotto i suoi piedi un groviglio di serpi, che è uno dei tanti simboli negativi che costellano il film, come le uova rotte o l’orecchino della sorellina (il magro tesoro reale, quello sì inghiottito dalla terra!), la mosca, con cui il film si chiude, rimasta magicamente viva dentro il “tuppetturu” di Peppuccio, quasi il regista volesse circolarmente chiudere il volo iniziale del bambino con l’immagine di un insetto sgradevole, il cui volo – ci ricorda Simonide di Ceo – è di breve durata come la vita degli uomini.redazione-argo

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