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Ripensare Catania (e i catanesi)?

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Una sgargiante copertina arancione attira subito l’attenzione sull’ultima iniziativa di Andrea Vecchio, imprenditore catanese noto per la sua pubblica opposizione al sistema del racket mafioso e attuale presidente della locale sezioneurlo-munch dell’ANCE, l’associazione confindustriale dei costruttori edili.
L’idea è, apparentemente, semplice: chiedere a personalità catanesi di rilievo in diversi campi della vita pubblica di proporre un’idea, un’ipotesi utile a contribuire a quella più generalizzata riflessione sul rilancio della città, avviata anche con la convocazione degli Stati generali.
Ottanta gli inviti, poco meno di sessanta le risposte, raccolte in un volume – distribuito gratuitamente ma scaricabile anche on line – e suddivise dai curatori in tre sezioni – Non vi sarà facile, Si può fare, Lo facciamo – secondo uno schema che vorrebbe mettere subito in chiaro la natura delle risposte stesse.
Diciamo subito che questa suddivisione non appare particolarmente funzionale perché in effetti molte del secondo gruppo potrebbero tranquillamente stare nel primo, se non fosse per un tono meno esplicitamente negativo, mentre quelle del terzo starebbero bene nel secondo, trattandosi quasi sempre di idee e progetti più o meno futuribili.
Per chi fosse interessato al genere, vi si può trovare un variegato repertorio di geremiadi in cui vengono accuratamente elencati gli innumerevoli disastri sociali, culturali, sociali, economici che fanno assomigliare Catania a una brutta copia, se mai fosse possibile, di un incubo di Munch.
Per questo motivo si fa particolare fatica ad andare oltre le prime due sezioni, su cui incombe un forte senso di rabbia e di rassegnazione che, quando va bene, sfuma nel sogno, nel poetico o nel fantastico, dando comunque l’idea di una fuga dalla realtà. Molti, troppi interventi si collocano nel genere letterario dell’auspicio, dell’occorre che, del si deve e finiscono per sottintendere una sorta di improbabile palingenesi antropologica del catanese medio
Non mancano naturalmente suggerimenti significativi su singole proposte: il Museo civico (Salmeri) il cui materiale, nelle more, potrebbe essere utilizzato per esposizioni tematiche temporanee (Iachello), il Museo archeologico (Pagnano), una sede degna per l’Accademia di Belle arti (Nicosia).
van googh almond_blossomDiversi interventi si spingono a proporre le linee generalissime di alcune ipotesi più complesse e articolate: l’attenzione alla formazione dei giovani fino a 18 anni (Modica); un buon piano casa (Balbo); la necessità di ripensare la città in chiave metropolitana, con particolare riferimento al piano dei trasporti pubblici (La Greca), e la connessa esigenza di elaborare un progetto di architettura istituzionale che ne assicuri il governo; il riutilizzo a fini istituzionali di importanti edifici di proprietà comunale (Campo); un elenco di strutture che renderebbero Librino più vivibile e meno periferia (Cascio); la realizzazione di una serie di iniziative a largo raggio (immigrati, famiglie, ambiente, risparmio energetico, beni culturali, insediamenti industriali) capaci di migliorare la qualità della vita e offrire nel contempo nuove occasioni di lavoro (Nicotra).
Ma su molti di essi incombe l’ineludibile domanda di Centorrino: con quali soldi?
Pochissime sono le risposte che si muovono a partire da un’esperienza già avviata, almeno in parte. Ci riferiamo a quelle di M. Ferrera (Civita in fiore), D. Montana (riutilizzo di beni sequestrati ai mafiosi), R. Marilli (il giornale universitario Step1), A. Presti e la su Fondazione Fiumara d’arte. Proprio per la loro rarità andavano forse meglio valorizzate per mostrare come è possibile, nel disastro generale, radicare un filo di speranza.
Una constatazione colpisce subito: l’eccessiva presenza di scrittori, giornalisti, artisti, docenti universitari, dirigenti scolastici, architetti e urbanisti, pochissimo controbilanciati da imprenditori (ne abbiamo contati solo tre), economisti (1), sindacalisti (1). Del tutto assenti (giustificati ?) i politici.
E il fatto di percepire ciò, da parte di chi legge, come un fatto positivo, è già di per sé un dramma, perché rinvia alla più generale questione della mancanza di una leadership e di una classe dirigente, ma anche di imprenditori, adeguati alla bisogna.
Questa osservazione serve a mettere in rilievo il limite del pur volenteroso tentativo: il sostanziale silenzio sulla questione centrale, sulla madre di tutti i mali, l’assenza di lavoro all’interno di un contesto seriamente produttivo, e non di mera mediazione commerciale, per di più nella forma ormai parossistica dei mostri commerciali.
In questo senso l’unico contributo che sembra muoversi in questa direzione è quello di F. Garufi il quale sostiene che è difficile sottrarsi “al triste pragmatismo della quotidianità” in assenza di una visione progettuale del futuro, avendo la consapevolezza del valore politico della battaglia che si avvia e che deve avere come primo obiettivo la rottura degli equilibri esistenti fra le forze che hanno bloccato lo sviluppo della città, per perseguire i propri fini di potere e di arricchimento.
E’ necessario invece ricominciare a tessere “il filo di un’identità politica e culturale“, rispetto alla quale l’amministrazione civica deve assumere, in particolare il ruolo di motore delle attività di promozione per attrarre l’impresa di qualità perché, in assenza di ciò, non ci può essere né sviluppo né lavoro.
Sono i primi segnali di una nuova primavera? E’ ancora presto per dirlo.
Ben vengano comunque queste ed altre iniziative simili. Step1 ha lanciato intanto un analogo progetto Catania 2.0, rivolto ai giovani sotto i trentacinque anni.

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