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Insegnare il dialetto: a chi interessa?

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Dopo aver risolto tutti i problemi riguardanti il ‘pane’ (sviluppo economico, disoccupazione giovanile, sistema dei trasporti, ecc.) i nostri deputati regionali si sono dati alla coltivazione delle ‘rose’ e la loro prima alzata di ingegno è stata la proposta di legge dell’on. Nicola D’Agostino, dell’Mpa, approvata all’unanimità dalla commissione Cultura del Parlamento regionale, che prevede per due ore a settimana “la valorizzazione e l’insegnamento della storia, della letteratura e della lingua siciliane nelle scuole di ogni ordine e grado”.
Mettendo le mani avanti, il parlamentare, che è convinto che la legge verrà approvata entro l’estate, ha dichiarato che “si tratta di una norma a costo zero per la Regione siciliana perché le materie che saranno proposte rientreranno nelle quote degli attuali piani obbligatori di studio riservate dalla legge Moratti alle Regioni, senza aumento dell’orario scolastico”.
E’ evidente il sapore ‘leghista’ della proposta, giustamente stigmatizzato da Vincenzo Consolo che sostiene la centralità della lingua italiana, nata tra l’altro in Sicilia, e non vede affatto la necessità di regredire verso i dialetti.
Resta in ogni caso il sospetto di un provvedimento propagandistico, molto generico, oltre che troppo economico (a costo zero), scritto senza consultare il mondo della scuola e dell’università e rinviando di fatto all’assessore regionale alla Formazione, Mario Centorrino, il compito di concordare con gli organismi scolastici le forme per applicare la legge nelle scuole.
Chi ha esperienza di scuola sa bene che, dagli istituti tecnici in giù, la stessa lingua italiana è già quasi una lingua straniera; sprecare tempo a tentare di insegnare il dialetto appare quanto meno masochistico.
E poi, è possibile insegnare un dialetto? Per natura sua il dialetto è una lingua soprattutto orale, quindi fluida, è accompagnata da una mimica e da un gesticolare che la rendono estremamente espressiva; la si apprende in famiglia, con gli amici e con la comitiva, per strada, non a scuola.
Nel momento in cui lo si vorrà costringere dentro una struttura per l’insegnamento lo si imbalsamerebbe e diventerebbe qualcosa di artificioso. Ciò che accade, di fatto, ogni volta che si usa in una forma letteraria.
E’ solo un caso che i grandi scrittori siciliani, e ne abbiamo in quantità industriali (Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, Quasimodo, Vittorini, Tomasi, Brancati, Patti, Bonaviri, Sciascia, D’Arrigo, Bufalino, Consolo, solo per fare qualche nome), abbiano tutti scritto in lingua italiana? Se avessero usato il dialetto, chi li avrebbe conosciuti?
Giovanni Ruffino, il più insigne linguista siciliano, docente alla facoltà di Lettere a Palermo, esprime perplessità non solo sulle procedure che (non) sono state seguite ma anche sulle concrete difficoltà che si dovranno superare per far funzionare convenientemente l’iniziativa.
La prima questione riguarda appunto quale dialetto verrà insegnato. Ruffino suggerisce un approccio linguistico, per capire ad esempio il contributo linguistico siciliano nella costruzione dell’unità d’Italia perché non ci si riduca alla superficiale riesumazione di filastrocche, proverbi e modi di dire. Ma, e siamo quindi alla seconda questione, quanti sono i docenti in grado di insegnarlo in modo adeguato? Chi si farà carico, scientifico ed economico, della loro formazione?
Le stesse osservazioni potrebbero essere fatte qualora si volesse privilegiare lo studio della letteratura dialettale, che ha certo una sua significativa tradizione.
L’assessore Centorrino, da parte sua, all’inizio dell’attuale anno scolastico aveva inviato alle scuole la proposta di un modulo di storia della Sicilia, da inserire nei curricoli ordinari. Per quanto se ne sa, non ha avuto ancora un seguito, ma l’ipotesi fatta circolare era tuttavia interessante anche se sembrava eccessivamente schiacciata sul versante della storia politico-istituzionale e poco attenta agli aspetti sociali ed economici, senza i quali il primo aspetto risulta inevitabilmente monco e scarsamente capace di andare oltre una storia osservata dal punto di vista delle classi dirigenti.
Anche in questi casi c’è tuttavia il rischio incombente di una insufficiente preparazione dei docenti, in mancanza della quale è probabile che tutto si ridurrà in un semplice, anche se lungo, elenco di avvenimenti raccontati in modo più o meno gradevole, secondo lo stile di Santi Correnti, informativo al massimo, ma per nulla critico e formativo.
Un’ipotesi, già praticata da alcune scuole siciliane, è quella di strutturare, all’interno di un buon modulo di storia generale, un’esperienza di laboratorio su documenti di storia locale, di cui sono ricchi, anche se poco ordinati, gli archivi di enti e scuole. Ma esistono i tempi didattici per attuare progetti così impegnativi?
Non vorremmo, ammesso e non concesso che l’iniziativa vada avanti, che diventi il solito cavallo di Troia per consentire alle tante associazioni pseudo culturali, che coltivano un sicilianismo becero e inconcludente, di accedere a fondi pubblici per promuovere un’immagine della Sicilia da opera dei pupi.
Sulla stessa questione si segnalano le simpatiche e pertinenti divagazioni di Ficarra e Picone su La Repubblica-Palermo del 22.5.2011.

1 Comments

  1. Concordo con Alessandro Pizzorno: “identità è un termine“ dal quale è meglio, quando possibile, tenersi lontano”… “parola… diventata luogo di rifugio per idee incerte e per pensieri pensati solo a metà”. Quando sento parlare di identità con argomenti simili a quelli di Borghezio, rabbrividisco.
    Non ha già fatto male abbastanza, il provincialismo?

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