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Gli articoli di De Roberto, parole di ieri per l'oggi

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“Il patrimonio artistico catanese merita il più fervido amore dei cittadini e le più diligenti cure dell’Amministrazione Comunale, non soltanto per le ideali ragioni dell’arte, della Storia e in generale della Cultura, ma anche per una reale e tangibile utilità.
E’ noto, infatti, e purtroppo, come la maggior parte degli stranieri che si fermano più a lungo a Taormina ed a Siracusa trascurino la Città nostra, sebbene essa sia un punto di passaggio obbligato (…). La più autorevole guida alla quale i viaggiatori d’oltralpe si affidano, il Beadeker, dice che a Catania basta fermarsi soltanto per mezza giornata.”
E’ possibile, si chiede l’autore de “I Vicerè”, obbligare moralmente i viaggiatori a sostare più a lungo a Catania? “Questo risultato si può conseguire, ed è tale che le fatiche o le spese alle quali bisognerà andare incontro saranno ampiamente rimuneratrici di nobilissimo vanto e di concreto vantaggio.”
Potrebbero essere stati scritti appena ieri su un periodico locale, se non fosse per quella leggera patina di antico che traspare dal linguaggio utilizzato.
In effetti sono le frasi introduttive del primo di sei articoli pubblicati sul “Giornale dell’Isola” da Federico De Roberto fra maggio e luglio del 1927, poche settimane prima di morire. Sono tratti da una più ampia relazione sullo stato del patrimonio artistico di Catania che lo scrittore aveva redatto in qualità di Sovrintendente alla Belle Arti.
Dario StazoneRecentemente sono stati rieditati in un volumetto dal titolo “Il Patrimonio artistico di Catania”, Papiro Editrice, per la cura attenta e appassionata di Dario Stazzone. 
In questi articoli sono descritte le condizioni in cui versavano alcuni dei più importanti cittadini, ma soprattutto sono prospettate molte e interessanti proposte per il loro recupero e la loro valorizzazione. I monumenti considerati sono: il Museo Biscari, il Castello Ursino, il Monastero dei benedettini, la Chiesa di San Nicola, la Biblioteca Ursino-Recupero e il Teatro greco-romano.
Due sono le linee lungo le quali si sviluppa il discorso di De Roberto: il valore e le oggettive ragioni artistico-culturali che giustificano la richiesta di maggiore assunzione di responsabilità da parte dell’Amministrazione locale, ma soprattutto la convenienza economica che consiglia una più decisa azione in questo senso.
Alcuni dei suoi ‘sogni’ si sono avverati, almeno in parte e sia pure dopo parecchi decenni: la destinazione a sede universitaria del Monastero dei benedettini e il conseguente necessario restauro; il pieno recupero del Teatro greco-romano, già avviato negli anni di De Roberto e concluso solo da un paio di anni; il trasferimento del Museo Biscari e quello dei Benedettini per la costituzione di un museo civico in un Castello Ursino, anch’esso da restaurare; il risanamento della chiesa di San Nicola, anch’essa sul punto di essere portata a termine, almeno nelle sue parti strutturali.
Tanto altro resta ancora da fare: la completa riapertura del castello federiciano, che tuttavia rivela la sua inadeguatezza ad essere sede di un museo; l’impossibilità di esporre in modo più ampio e sistematico le collezioni antiquarie, nel frattempo arricchite da tutti i rinvenimenti avvenuti successivamente agli scritti di De Roberto; la formazione di un museo della città degno di questo nome; il completamento del restauro della ricca dotazione più propriamente artistica (la sacrestia, il cosiddetto ‘tesoro’, il coro ligneo, le tele e gli altari delle cappelle laterali, l’accesso alla terrazza panoramica) della chiesa di San Nicola.
Ma, ammesso che anche questi interventi vengano portati a termine, basterebbero per fare di Catania una città d’arte, come auspicava De Roberto?
A noi sembra che questo risultato non si possa ottenere semplicemente sommando un certo numero di siti artistici e museali. Ciò che manca è il contesto di una città capace di produrre cultura nel senso più ampio e integrale del termine.
Forse De Roberto pensava anche a questo, quando immaginava di fare del Monastero dei Benedettini un ‘palazzo dell’arte e della storia’, contenitore non solo di facoltà universitarie, ma anche di musei, archivi e sale per manifestazioni pubbliche.
Ma questo progetto è ormai inattuabile, dato che la fame di locali dell’Università ha occupato a tappeto tutto il quartiere dell’Antico Corso.
Dopo il recupero di Palazzo Platamone, ora Palazzo della cultura, sembra adesso che per un museo della città si stia pensando per il riuso dell’ex Manifattura dei tabacchi, ma l’attuazione di questo progetto va molto a rilento per la limitatezza delle disponibilità finanziarie, ed è collocata in un contesto ambientale forse non del tutto idoneo.
E, infine, è da chiedersi se davvero la città sia disponibile, come annota Stazzone, a ripensare “il paradigma identitario di una comunità che si rappresentava quasi esclusivamente come centro commerciale o industriale”.
In certi momenti viene da domandare se davvero i catanesi abbiano voglia di definirla, questa benedetta identità.
Sarà un caso, ma a noi sembra allegoricamente significativo che tra, gli eventi naturali come il terremoto del 1693, e quelli provocati dall’uomo, come l’incendio del palazzo degli Elefanti del 1944, Catania abbia praticamente perduto i suoi archivi storici.

Il volume è stato presentato venerdì 27 gennaio, presso il circolo Città Futura, da Dora Marchese, che ha introdotto il contenuto del libro, Daria Motta, con un interessante approfondimento sulla lingua di De Roberto e della Catania di allora, la restauratrice Carmela Di Blasi, che si è soffermata sulle “ferite” prodotte ai beni culturali non solo in quegli anni (basti pensare che nella chiesa di San Nicola, utilizzata come deposito durante la seconda guerra mondiale, entravano i camion…), Maria Rosa Profeta che ha fatto un excursus storico sulla città, divisa tra vocazione industriale e vocazione commerciale.
Il curatore ha ripreso, nel suo intervento, il tema del rapporto tra De Roberto e la sua città di adozione, da lui “odiosamata” e che -a sua volta- non lo amava, come del resto non amò nessuno dei suoi grandi (nè Verga nè Bellini). Eppure questo scrittore schivo scrisse, alla fine della sua vita, degli articoli militanti proprio come atto di riparazione, sollecitando degli interventi che, come ha concluso la moderatrice,  Anna Di Salvo, potessero allora e dovrebbero ricucire oggi il rapporto tra arte, politica e città.

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