Violenza sessista, il decreto non contrasta e non previene

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Non basta un decreto. Per far sì che non accadano più con cadenza oraria violenze sulle donne, e femminicidi a giorni alterni, occorre educare, destrutturare gli stereotipi, analizzarli, combattere i pregiudizi, creare una nuova civiltà delle relazioni.
Lo ha detto e urlato, scritto e diffuso in tutti i modi Graziella Priulla, sociologa dell’Università di Catania che da sempre si occupa di identità di genere, di stereotipi, di violenza sulle donne. Oggi le abbiamo chiesto di commentare il nuovo decreto contro la violenza sessista, salutato da molti come un grande successo. Basta reprimere o occorre soprattutto educare?
Ieri, 20 agosto, la Camera si è riunita con all’odg il decreto d’urgenza che inasprisce le pene per le condotte di violenza sessista. Queste misure sono inserite in un insieme di norme repressive, ad esempio contro i no-Tav e i no-Muos: una specie di “pacchetto sicurezza”.
In realtà il decreto non ha fatto nessun passo avanti nell’iter parlamentare: la seduta è servita solo per l’annuncio ufficiale della presentazione del provvedimento. Alla ripresa dei lavori, in settembre, sarà la commissione Giustizia a entrare nel merito.
Dopo la recente esplosione mediatica del problema, Letta e Alfano hanno promosso questo decreto in gran pompa, presentandolo come atto capace di imprimere un cambiamento radicale nei rapporti di genere, ma non è vero: se si eccettua il fatto positivo che finalmente la parola femminicidio – uccisione di una donna perché non si adegua a ciò che un uomo si aspetta da lei – viene ufficialmente accolta nel nostro lessico giuridico.
Questo decreto punisce ma non contrastae non previene, e dunque non risolve il problema. E’ un passo, ma non è un buon passo.
Nonostante l’enfasi elogiatoria della stampa governativa (“straordinaria conquista” ecc.), tante e tanti hanno detto che l’aspetto repressivo non basta. Che non si può affrontare questo fenomeno come un fatto emergenziale, un problema di ordine pubblico, una causa di allarme sociale. Tra l’altro l’inasprimento delle pene non ha e non ha mai avuto funzione deterrente: è probabile che la mattanza di donne non si fermerà.
Di fronte a un problema culturale lo Stato italiano si limita a mostrare i muscoli.
Nel decreto non si parla dell’informazione delle donne a rischio, del potenziamento dei servizi di base e delle reti di sostegno, della formazione degli operatori. Non si parla di centri antiviolenza e di case rifugio, della loro moltiplicazione e finanziamento (il Consiglio d’Europa raccomanda un centro antiviolenza ogni 10.000 persone e un centro d’accoglienza ogni 50.000 abitanti: in Italia dovrebbero esserci dunque 5700 posti letto ma ce ne sono solo 500, contro i 1100 della Francia, i 7000 della Germania, i 4500 della Spagna e i 3890 dell’Inghilterra).
Non si parla di centri di ascolto per uomini maltrattanti. Non si parla della violenza simbolica, che è meno vistosa di quella fisica ma ne è il brodo di coltura. Non si cerca di capire e di prevenire (certo, è più difficile, più lungo, e non fa scena).
Se scartiamo l’ipotesi ridicola di una connaturata malvagità del sesso maschile, possiamo pensare che un cambiamento – nel senso di relazioni più umane tra uomini e donne – venga solo dalla cultura, dall’educazione, da una conoscenza di sé e dell’altro più consapevole della barbarie che ci portiamo dentro, nostro malgrado. Non è una questione per donne, ma la condizione fondamentale per dar vita a una società libera dall’oppressione.
Il testo prevede, sì, “l’urgente definizione di un piano di azione” di tipo culturale e formativo. Ma si tratta di un accenno, tutto da definire.
Eppure il 28 maggio scorso era stata ratificata dalla Camera dei deputati la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Contestualmente, era stato presentato e accolto un ordine del giorno che chiedeva al governo azioni di prevenzione della violenza attraverso azioni strutturali e organiche in ambito educativo, e in particolare

  1. di fissare formalmente tra gli obiettivi nazionali dell’insegnamento nelle scuole italiane la promozione del rispetto delle identità di genere e il superamento degli stereotipi sessisti, attuano appositi piani di formazione dei docenti;
  2. che tutti i libri di testo adottabili rispettino le indicazioni contenute nel Codice di autoregolamentazione Polite (Pari Opportunità nei libri di testo, redatto alla fine degli anni ‘90 ma mai adottato) attraverso una dichiarazione formale di adesione al medesimo Codice (sono i testi scolastici che fanno i programmi, e oggi trasmettono cultura discriminatoria, sia pure in modo inconsapevole).

Non se ne è fatto niente: ma non erano temi urgenti?
Tutti i Paesi europei, negli ultimi dieci anni, hanno predisposto in campo educativo mezzi di sensibilizzazione e di lotta contro gli stereotipi sessisti, per emancipare gli studenti dai pregiudizi legati al sesso : corsi per docenti, guide educative, insegnamenti introdotti a scuola, controllo dei materiali didattici … azioni che da noi sono completamente assenti.
Se si volesse fare una campagna di sensibilizzazione, formazione ed educazione alla non-violenza come mezzo per risolvere i conflitti interpersonali lo Stato italiano non dovrebbe nemmeno spendere soldi. Basterebbe che Ministeri e Regioni facessero progetti per accedere ai finanziamenti del Programma Quadro Europeo di Ricerca e Sviluppo in materie sociali. Quest’anno termina il settimo Programma e inizia l’ottavo: 2014-2020.
In quanti si sono attrezzati? E la Sicilia, che fa?

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