Due vescovi catanesi, due modelli di chiesa, un solo progetto

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Continua la certosina e meritoria opera dello storico Adolfo Longhitano per la conoscenza della storia della chiesa catanese attraverso la pubblicazione commentata delle ‘Relazioni ad limina della Diocesi di Catania’, le relazioni sullo stato della diocesi che ogni vescovo, a partire dal Concilio di Trento, ha l’obbligo di inviare alla Santa Sede.
L’ultimo volume riguarda le Relazioni dei vescovi catanesi della prima metà del Novecento, il cardinale Giuseppe Francica Nava (1895- 1928) e monsignor Carmelo Patanè (1930-1952), volume che sarà presentato il prossimo 14 maggio al Museo Diocesano di Catania.
Pur essendo dei documenti tipicamente ecclesiastici e, per di più, redatti sulla base di schemi prefissati in forma di questionario, risultano fonti molto utili per comprendere meglio sia il profilo pastorale di chi li compilava sia, indirettamente, il segmento di storia urbana di cui, in qualche modo, furono coprotagonisti.
Nel nostro caso si tratta di due vescovi che aiutano a capire con grande chiarezza come la storia locale sia la via più adeguata per comprendere gli accadimenti della più ampia storia nazionale.
Nava, proveniente da una brillante carriera diplomatica, arriva a Catania per succedere all’amatissimo cardinale Dusmet quando la Chiesa italiana, sotto la regia del pensiero sociale di Leone XIII, stava cercando di uscire dalle secche del non expedit, seguito all’occupazione di Roma da parte dell’esercito del nuovo Stato unitario, e di recuperare il terreno perduto nei confronti della emergente società di massa.
La Sicilia, in particolare, aveva appena vissuto il dramma della violenta repressione del movimento dei Fasci siciliani.
Rispetto al vescovo benedettino, Nava marca subito una netta differenza: pur stimandolo, infatti, per la santità personale, la capacità di dialogo e l’esercizio della carità, non riteneva che fosse un modello di governo pastorale adeguato alle nuove esigenze che l’affermarsi del cosiddetto Movimento cattolico voleva portare avanti.
A Dusmet si imputava il fatto che non aveva favorito la diffusione dell’Opera dei Congressi, lo strumento con cui i cattolici stavano tentando di rientrare nella scena politica. Attribuirgli tuttavia la mancanza di slancio sociale appare oggi anacronistico, tenendo conto che la svolta in questo senso -da parte di tutto l’episcopato siciliano- si ebbe, appunto, dopo i moti dei Fasci siciliani.
Nava si attiva quindi per introdurre l’Opera dei Congressi (peraltro quando già cominciavano ad emergere i primi segni di crisi che porteranno alla sua soppressione nel 1904 ad opera di Pio X) con tutto il suo corredo di intransigentismo connesso al progetto di restaurazione della res publica christiana.
Tuttavia costringere la figura di Nava dentro il cliché della storia del Movimento cattolico sarebbe un errore e gli si farebbe un gran torto se non si considerassero tutti gli altri aspetti più strettamente ecclesiali del suo governo pastorale.
Prende, infatti, molto a cuore la formazione del clero e la cura del seminario, del quale si premura di innalzare il livello qualitativo dei docenti, mandando i migliori a studiare fuori (a Roma, a Lovanio). Fonda inoltre l’Opera per le vocazioni ecclesiastiche per raccogliere fondi a sostegno dei seminaristi bisognosi.
Mette anche mano all’istruzione religiosa del popolo di cui stigmatizza la religiosità esteriore e superficiale ma anche la corruzione dei costumi, sia pure intesa nel senso di un progressivo allontanamento dal controllo della chiesa.
Incentiva quindi l’insegnamento della dottrina cattolica, riorganizza la catechesi, fonda scuole di religione per adolescenti e giovani: tutte iniziative che, pur avendo un fondamento apologetico, prendevano comunque sul serio la questione della formazione culturale dei battezzati con il coinvolgimento del clero, degli istituti religiosi e dei laici.
Avvia pure una decisa opera di purificazione della religiosità popolare e, dopo secoli, indice nel 1918, un Sinodo diocesano che segnerà l’avvio del passaggio dall’antico modello incentrato sul vescovo come unico parroco al modello delle parrocchie con parroci perpetui e con piena responsabilità.
 Anche l’episcopato di Carmelo Patanè, iniziato nel 1930, è segnato dal passaggio ad una nuova fase della storia della chiesa italiana: esso inizia, infatti, un anno dopo la stipula dei Patti Lateranensi, favorito forse dalla stima che egli godeva presso alcuni ambienti del Partito Nazionale Fascista.
Con lui si mette definitivamente tra parentesi la presenza in diocesi del Movimento cattolico e la memoria dei suoi promotori e protagonisti.
Nel 1931 egli sceglie stranamente come vicario generale Carmelo Scalia, che era stato segretario di Sturzo e all’avvento del Fascismo si era dovuto rifugiare in Vaticano. Questa collaborazione, nondimeno, mostrò presto i suoi limiti per le differenze di pensiero e di vedute, anche se fu la precoce morte di Scalia nel 1936  a mettere fine ad un rapporto di collaborazione probabilmente già deteriorato.
L’attività pastorale di Patanè fu contrassegnata da un forte impulso dato alla diffusione dell’Azione cattolica, dall’incremento della presenza di istituti religiosi  sia maschili che femminili e dalla riorganizzazione delle strutture diocesane, riprendendo il progetto avviato da Nava di dotare tutta la diocesi di parrocchie a pieno titolo. Progetto che sarà portato a compimento solo dopo la guerra, a partire dal 1944.
Anche egli persegue soprattutto, come Nava, un progetto di restaurazione della res publica christiana e di difesa della fede e della morale, non in contrapposizione ma sotto l’ombrello del Regime, nei confronti del quale mostra costantemente un atteggiamento di fiancheggiamento. Ad esempio appoggia esplicitamente, con un linguaggio che non lo distingueva molto da quello dei gerarchi fascisti, le varie campagne militari, economiche e sociali lanciate da Mussolini.
Un cristianesimo, insomma, considerato più come religione civile che come fede evangelica.

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