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Fava racconta San Berillo (5)

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La miseria e la virtù
Catania / San Berillo, vent’anni fa
di Giuseppe Fava (I Siciliani 2/4/86)

Il risanamento è stato attuato a metà. Nove edifici e intorno, o accanto, il deserto e la miseria di sempre. La promessa di San Berillo è stata disattesa. Tira le somme Giuseppe Fava in questo stralcio dell’inchiesta, apparsa su La Sicilia nel 1966 e ripubblicata su ‘I Siciliani’ venti anni dopo. Nessuno dei protagonisti, pubblici e privati, ha onorato i propri impegni, stabiliti per legge. I catanesi attendono ancora oggi.
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Ora sono trascorsi oltre dieci anni dall’inizio del rinascimento del vecchio San Berillo. Quel pazzo groviglio di terra, di pietre, case, palazzi, cisterne, vicoli, scalini, botole che i catanesi costruirono nel periodo più miserabile della loro storia è stato raso al suolo, e le ruspe hanno ormai schiantato gli ultimi edifici.
I trentamila abitanti sono scomparsi, disseminati in tutto il corpo della città; ma la piccola folla oscena, la piccola, orribile anima del quartiere è rimasta. Prostitute, ruffiani, invertiti, sfruttatori, scippatori, malviventi.
Metro a metro hanno indietreggiato per dieci anni, ma resistono cupamente lungo la intera fascia che circonda la zona del risanamento. Ci sono strade che tuttora non hanno uguali in tutta Europa: e se è vero che la corruzione fisica e la miseria fanno parte del dolore, e il dolore è grande parte della condizione umana, allora deve essere possibile scoprire anche in queste strade una atroce ragione di poesia.
Strade profonde con le facciate che sembrano combaciare, vicoli che sprofondano di colpo come botole, case incredibili che grondano acque come uno schifoso sudore; ai balconi dei primi piani occhieggiano volti di omosessuali, incipriati, biondi, facce di vecchi truccati da bambini, e dinnanzi ai bassi stanno sedute le donne.
Come nel quartiere di San Paolo ad Amburgo; solo che là c’è freddo e le donne stanno dietro le vetrine e qui l’aria è mite, con un odore di peperoni bruciati, e le donne stanno sedute dinnanzi all’uscio, talune ormai vecchie e schiacciate come materassi, altre invece ancora quasi bambine.

Sembrano contente. Più indietro di così non potranno più ricacciarle, perchè il confine del risanamento è questo e alla buon’ora, da quella immensa radura deserta del Corso Sicilia, arriva finalmente anche qui il sentore del mare.
Entro un anno questa tetra distesa di macerie dovrebbe essere ricoperta da una duplice gigantesca fila di palazzi. Ma è una chimera!
La legge del San Berillo prevedeva che le espropriazioni si sarebbero dovute completare entro i cinque anni a partire dalla data del contratto, cioè dal febbraio 1957. Nel febbraio del 1962 le espropriazioni avrebbero dovuto dunque essere definitive. Entro i sei mesi successivi, cioè per l’agosto 1962, avrebbero dovuto essere completate poi tutte le demolizioni, ed infine, entro i 18 mesi ancora successivi, cioè per il febbraio 1964, si sarebbero dovute realizzare strade, piazze, marciapiedi, aiuole ed opere pubbliche dell’intera zona del risanamento.
La stessa legge prevedeva tuttavia per tutti questi termini, una proroga massima di due anni nel caso che, per insufficienza di stanziamenti o capitali, non fosse stato possibile costruire tutte le case necessarie agli sfrattati.
Anche a calcolare dunque una proroga di due anni per tutti termini anzidetti, le espropriazioni avrebbero dovuto essere completate entro il febbraio ’64, le demolizioni entro l’agosto di quell’anno e tutte le opere pubbliche entro il febbraio 1966. I termini imposti dalla legge sul risanamento sono saltati!
La stessa legge imponeva inoltre all’Immobiliare di provvedere, entro il 31 dicembre 1968, alla integrale costruzione di maestosi edifici lungo i due fronti dell’intero Corso Sicilia, oltre agli edifici di fregio ed ornamento della piazza San Berillo e dell’intera piazza della stazione.
Dopo dieci anni dall’inizio del risanamento sono stati costruiti invece solo nove edifici lungo il primo tratto del Corso Sicilia; restano perciò ancora da realizzare ben sedici isolati fra cui un grattacielo di venti piani per un volume totale di quasi un milione di metri cubi.
Un’opera di fantascienza urbanistica da realizzare – a termine di legge – in poco più di 24 mesi: ci vorrebbero contemporaneamente 16 cantieri, di almeno cento operai ciascuno, e con un impegno di capitale di almeno sedici miliardi.
Qualcosa del genere è stato tentato altrove; ma a Brasilia, dove si doveva costruire addirittura una capitale.
Dieci anni or sono c’era al centro di Catania un lurido mare di case e tuguri dove sporcizia, turpitudini e miserie si putrefacevano insieme a trentamila esseri umani.
Ora quasi tutto è scomparso, ma la di là di quei primi nove palazzi, dove già dovrebbe delinearsi la strada più bella e moderna d’Europa, c’è solo un deserto.
Dietro le lamiere che delimitano le aree, fumigano le immondizie.
Ed all’inizio di questa superba strada, a trenta metri dalla statua di Bellini, proprio nel cuore della città, c’è ancora un grande e vecchio edificio che avrebbe dovuto essere già demolito come tutti gli altri.
E’ un nobile, e quasi maestoso edificio; ma altri ce ne erano nel vecchio quartiere, più piccoli ma architettonicamente più leggiadri, eppure sono stati rasi al suolo. Oltre tutto è sbilenco e soffoca la prospettiva dell’intero risanamento.
Con i suoi balconi pullulanti di lenzuoli che sventolano oltraggiosamente, come in un vicolo di periferia, costituisce il segno monumentale di quello che è Catania, della sua anima furiosa, avida, geniale, egoista, ed anche della sua incompletezza civile, del suo inguaribile provincialismo, della insensibilità di ognuno verso le cose che appartengono a tutti.

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