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Sicilia, quei mestieri che non ci sono più

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gelsominaie-2Alcuni ci sono ancora. Altri sono scomparsi da tempo. Sono antichi mestieri siciliani raccontati da foto d’epoca raccolte nel filmato che vi proponiamo oggi per arricchire la ricostruzione dei lavori tradizionali iniziata da Argo in un precedente articolo.
A piazza Mazzini, a Catania, “u siminzaru” vendeva”calia e semenza”, semi di zucca e ceci abbrustoliti. Ancora oggi, soprattutto nel corso di feste, troviamo le bancarelle che vendono noccioline e semi tostati ma niente a che vedere con quel romantico carrettino.
Quello che non troveremo più, oggi, sicuramente, è il venditore di càntari o cantri che dir si voglia, i vasi da notte di terracotta che tanti anni fa sostituivano i nostri servizi igienici. Anche Tomasi di Lampedusa scrive di un piccolo vano nell’antica casa nobiliare nella quale si svolge il gran ballo e il principe danza con Angelica. Si legge ne Il Gattopardo di “…una cameretta trascurata, a livello della loggia dell’orchestra… in essa era disposta in bell’ordine una ventina di vasti pitali, a quell’ora quasi tutti colmi, alcuni sciabordanti per terra…”.
Ma torniamo al nostro album dei ricordi per incontrare “il salinaru”, colui che raccoglieva il sale formatosi nelle saline.
Il sale, monopolio dello Stato, era un tesoro, abbondante in Sicilia e ben pagato al nord, mentre l’acqua è sempre stata rara e cara sull’isola, amministrata da pochi che sulla sete di tanti hanno costruito la loro fortuna.
Acqua da tenere da conto, dunque, da conservare nei recipienti venduti dal bummularu, bummuli di terracotta dai quali bere direttamente, senza bicchieri, il prezioso liquido che dentro si manteneva fresco.
Ancora oggi nelle periferie e nei paesi gira il carrettino del gelataio. Forse l’igiene, soprattutto allora, in assenza di cellette frigorifere, lasciava desiderare ma, nonostante il rischio di gastroenteriti, i ragazzini non volevano perdere il piacere di gustare un buon gelato.
Il venditore di sedie riusciva a portarne tante ma tante, come potete vedere dalla foto. Ma come avrà fatto a mantenere in equilibrio quella torre?
Il maniscalco ferrava i cavalli.
Non c’erano lavatrici e non c’era nemmeno l’acqua corrente. Così si andava al lavatoio o al fiume, o meglio, le donne, le lavandaie, andavano a lavare i panni. Poi li stendevano al sole. La biancheria profumava di pulito anche senza detersivi e ammorbidenti.
I contadini lavoravano i campi, aravano, trebbiavano, mietevano e seminavano sotto il sole cocente, senza aiuto di macchine ma solo di utensili.
Allora c’erano anche coloro che raccoglievano e lavoravano la manna. No, non si tratta di quella divina di cui parla la Bibbia. Non è altro che una linfa estratta dalla corteccia di alcune specie di frassini. E’ un prodotto tipico siciliano.
La coltivazione del frassino da manna risale alla dominazione islamica e raggiunse la maggiore produzione nell’Ottocento. Adesso la coltivazione è limitata al territorio di Pollina e Castelbuono. La manna è un blando purgante, un regolatore e rinfrescante intestinale. È anche un cosmetico naturale, e ha una benefica azione sull’apparato respiratorio; è inoltre un dolcificante naturale a basso contenuto di glucosio e fruttosio. Infine, può essere usata come collirio nelle congestioni oculari.
Andiamo avanti e incontriamo lu calafataru, colui che impermeabilizza le barche e il vuttaru, il mastro bottaio che con perizia costruiva a mano le botti con doghe di rovere o castagno, tenute da cerchi di ferro e chiuse alle due estremità da un fondo o ‘timpagno’.
Una volta c’erano le raccoglitrici di gelsomino. Si alzavano di notte per raggiungere a piedi il posto di lavoro, comincivano a lavorare al buio con i piedi immersi nella umidità della rugiada e dell’acqua di irrigazione. Tutto per poche lire: un chilo di gelsomini veniva pagato, negli anni 50, solo 25 lire. Ma quei candidi fiori non pesano nulla e ce ne vogliono tanti per fare un chilo.
Scrive Simona Mafai: “E’ strano come possano convivere poesia e fatica! Cosa c’è di più poetico di un gruppo di giovani donne che scendono all’alba, a piedi nudi, in mezzo ai gelsomini, e che – quasi stordite dal profumo intenso ancora notturno dei fiori – li staccano delicatamente uno ad uno per riempirne cestini, tenuti alti dalle braccia dei figli bambini?”.
Sindacalizzate, le gelsominaie lottarono duramente per migliori condizioni di lavoro, coinvolgendo anche altre donne impiegate in altri settori. Adesso, per produrre le essenze dei profumi,  non c’è più bisogno delle raccoglitrici di gelsomini .
Anche le ricamatrici sono ormai rare. Tanti anni fa, passando, d’estate, per la via principale di Mirabella Imbaccari si poteva sentire il ticchettio quasi assordante dei fuselli del tombolo.
E poi scarpai e sarti, muratori e “patriarchi”, il venditori di lupini e lu “castagnaru”. C’era “lu stazzonaru”, l’addetto allo ‘stazzuni’, l’area in cui si lavorava l’argilla e si cuocevano i mattoni.
E infine il costruttore di Pupi che spesso era anche il puparo, colui che mette in scena l’Opera dei pupi per la gioia di grandi e piccini.

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