Crisi di governo, quando la propaganda non basta più

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Crisi economica, diseguaglianze sociali, mancanza di lavoro, salari inadeguati, giovani costretti ad emigrare soprattutto dal Sud, dissesto del territorio, corruzione: i problemi più gravi del Paese (in particolare del nostro Meridione) non sembrano essere al centro dell’attenzione pubblica.

Nella nostra vita, in quella della nostra famiglia e della nostra città, sono la causa del malessere diffuso. I lavori stabili e ben remunerati sono ormai un miraggio, aumentano le occupazioni precarie e gli stipendi da fame, i nostri figli devono andar via anche se non vorrebbero, le frane si portano via interi pezzi del nostro territorio.

Ma quello di cui si discute è la crisi di governo, i porti chiusi, la sicurezza minacciata soprattutto dall’arrivo di poveri diavoli che sbarcano sulle nostre coste. E noi finiamo per convincerci della gravità di una minaccia inesistente e della necessità di affidarci all’uomo forte che può salvarci (non a caso si chiama Salvini!).

La connessione tra questa ‘minaccia’ e i nostri problemi di lavoro o di bilancio familiare non è chiara. Giornali economici come il Sole 24 ore ci dicono che, anche nel nostro Paese, il 10% più ricco della popolazione (cioè circa 5 milioni di adulti) guadagna sempre di più, possiede il 30% del reddito nazionale, mentre la metà più povera degli italiani guadagna sempre meno, appena il 24%.
Lo stesso Viminale ci comunica ufficialmente che la maggior parte dei delitti avvengono all’interno della famiglia e che i famosi rimpatri di immigrati, sbandierati dal ministro dell’Interno come necessari ed immediati, sono in realtà diminuiti.

Quindi, orizzonte economico pessimo, sicurezza zero.

Ma, se non ci affidiamo al salvatore di turno, cosa ci resta? Solo un crescente senso di insicurezza e una assenza di prospettive. Anche perchè manca una forza politica che lanci un messaggio convincente, che dimostri di praticare una forte e coerente opposizione sociale e culturale.

La crisi di governo comunque sembra essere alle porte.

Anche se accenna adesso a voler fare marcia indietro, è stato Salvini a voler staccare la spina. Perchè? Per capitalizzare i consensi? Per paura del prevedibile flop della prossima legge finanziaria? Per le sollecitazioni delle regioni del nord che temono di non poter realizzare l’autonomia differenziata (concordata, peraltro, con il governo Gentiloni)? Per altri motivi?

Anche se adesso i 5S vorrebbero sottolineare le differenze con l’alleato, la coalizione gialloverde ci appare meno disomogenea di quanto si sia voluto far credere.

Comune è il fastidio per la democrazia parlamentare.

I pieni poteri richiesti da Salvini sono l’estremizzazione ultima delle proposte dei 5 Stelle sulla riduzione del numero dei parlamentari (se il tema fosse stato quello del risparmio, si sarebbero potuti dimezzare stipendi e indennità) e non sono troppo distanti dal controllo degli eletti pentastellati da parte della Casaleggio. E parliamo di un fastidio, peraltro, condiviso anche da Renzi con il progetto di “riforma”, bocciato dal referendum popolare.

Comune è il disprezzo per i diritti umani, e lo dimostrano i decreti sulla sicurezza, così come l’idea dell’appello diretto alle masse.

Ovviamente, non si tratta di forze politiche sovrapponibili.

Va, per esempio, riconosciuta ai 5 Stelle una minima sensibilità verso i temi sociali, che ha permesso di modificare (in piccola parte) i provvedimenti più antipopolari dei precedenti governi di centro-sinistra (lavoro, scuola).

Non convince però che solo ora denuncino le malefatte della Lega, come se non avessero governato insieme.

La Lega, d’altra parte, non è più quella di Bossi e/o Maroni, pur rimanendo profondamente antimeridionale. Ha assunto le caratteristiche di un movimento reazionario di massa, oltremodo pericoloso per la tenuta democratica del Paese. Non serve ricordare il passato di Salvini & C e le sue precedenti prese di posizione contro il Sud, non è questa la strada per scalfirne il consenso.

Occorre individuare, e praticare, politiche che diano risposte alle paure di chi perde il lavoro, di chi deve lasciare il Paese, politiche che, contrastando gli effetti della crisi, rimettano in discussione le disuguaglianze.

Non dovrebbe essere difficile individuare i punti fondamentali su cui costruire una maggioranza parlamentare: diritto al lavoro e a un salario dignitoso, istruzione e formazione, diritto alla salute, tutela del territorio, gestione seria dell’immigrazione.

E intanto vigilare perchè la crisi di governo possa svilupparsi senza nessuna forzatura rispetto alle regole costituzionali, con i presidenti delle Camere e il Presidente della Repubblica che esercitano pienamente le loro prerogative (non è Salvini che decide se e quando votare).

Solo il coinvolgimento delle forze sociali, la forte presa di posizione di una larga parte della società civile possono frenare le pulsioni autoritarie dell’oggi e riportare il Paese dentro una sana e auspicabile dialettica democratica.

Un obiettivo raggiungibile se cresce, a livello popolare, la domanda di risposte adeguate a bisogni reali.

Se, invece, la discussione rimane all’interno degli attuali schieramenti politici, preoccupati più delle propria sopravvivenza che dei problemi collettivi, ci sarà spazio solo per accordi “furbetti”, che farebbero crescere ancora di più populismo e antipolitica.

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