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Palestina, perchè non si può tacere sull'annessione della Cisgiordania

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Una manifestazione nazionale a Roma e varie iniziative in altre città anche siciliane, per richiamare l’attenzione sulla gravità di ciò che sta accadendo in Palestina, dove – il prossimo 1 luglio – il governo presenterà alla Knesset una legge che prevede l’annessione del 30% della Cisgiordania allo Stato d’Israele.

Molte associazioni hanno partecipato al sit-in di Messina, mentre a Palermo il sindaco Orlando ha voluto sottolineare la sua partecipazione come una “presenza istituzionale” per denunciare la violazione della legalità internazionale.

L’annessione, infatti, viola uno dei principi basilari del diritto internazionale, e costituisce un precedente pericoloso, a livello mondiale, per tutti gli stati che nutrono ambizioni territoriali.

Ecco perchè tutte le nazioni, e le organizzazioni che le rappresentano, dovrebbero mobilitarsi ed intervenire, a partire dall’Unione Europea, che invece tace.

Si sono espressi quarantasette esperti indipendenti della Commissione per i diritti umani dell’ONU, che hanno rilasciato la seguente dichiarazione:

«L’annessione dei territori occupati è una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite e delle Convenzioni di Ginevra ed è contraria alle norme fondamentali più volte affermate dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, secondo cui l’acquisizione di territori con la guerra o con la forza è inammissibile. La comunità internazionale ha vietato l’annessione proprio perché incita a guerre, devastazioni economiche, instabilità politica, sistematiche violazioni dei diritti umani e diffuse sofferenze. I piani dichiarati da Israele per l’annessione estenderebbero la sovranità su gran parte della Valle del Giordano e su tutti gli oltre 235 insediamenti israeliani illegali in Cisgiordania. […]

“Le Nazioni Unite hanno dichiarato in molte occasioni che l’occupazione israeliana, che risale a 53 anni fa, è fonte di gravissime violazioni dei diritti umani contro il popolo palestinese. Queste violazioni includono confisca di terre, violenza dei coloni, leggi di pianificazione urbanistica discriminatorie, confisca delle risorse naturali, demolizione delle case, trasferimento forzato della popolazione, uso eccessivo della forza e tortura, sfruttamento del lavoro, violazioni estese dei diritti alla privacy, restrizioni sui media e sulla libertà di espressione, prendere di mira le donne attiviste e i giornalisti, detenzione di minorenni, avvelenamento da esposizione a rifiuti tossici, sfratti ed espulsioni forzate, deprivazione economica e povertà estrema, detenzione arbitraria, mancanza di libertà di movimento, insicurezza alimentare, applicazione discriminatoria delle leggi e imposizione di un sistema a due livelli di diritti politici, legali, sociali, culturali ed economici diversi in base all’etnia ed alla nazionalità. I difensori dei diritti umani palestinesi e israeliani, che portano pacificamente l’attenzione dell’opinione pubblica su queste violazioni, sono calunniati, criminalizzati o etichettati come terroristi».

Un approfondimento su “Israeliani e Palesinesi:dalla repressione all’apartheid” si trova sul sito Questione Giustizia.it.

Il giurista Nello Rossi pone la questione se, accanto alla “costante” storica della repressione israeliana ai danni del popolo palestinese, non sia stato istituito da Israele, un vero e proprio regime di apartheid nei confronti del popolo palestinese.

“L’apartheid infatti non è (solo) violenza pura, massacri, repressione crudele. Esso si realizza (anche) attraverso pratiche più quotidiane ed incruente ed attraverso regole, a volte sottili, di persistente discriminazione giuridica e di fatto tra i diversi gruppi etnici che, nel loro complesso, disegnano un regime di dominio e di oppressione destinato a perpetuarsi nel tempo”.

Una valutazione non semplice perchè – come scrive Rossi – “i giudizi negativi sulla condotta dello Stato di Israele non sono mai pronunciati a cuor leggero” soprattutto dagli europei che “non sono in grado di discutere i problemi che riguardano il popolo e lo Stato di Israele senza avvertire un profondo coinvolgimento emotivo”.

Non si tratta solo dell’immenso senso di colpa per ciò che di orribile è stato fatto al popolo ebreo nel secolo scorso. Ci sono altri fattori, come “l’acuta percezione del rischio che, prendendo a pretesto la politica di Israele contro i palestinesi, riprendano vigore nella nostra società pulsioni antisemite, che sono da contrastare senza tentennamenti.

Inoltre pesa l’esistenza e la forza, nel mondo arabo, di posizioni integraliste che negano ogni legittimità all’esistenza dello Stato di Israele e ne predicano la pura e semplice distruzione.

Infine conta il dato di fatto che, in un’area tormentata del mondo, governata da dittature e da regimi autocratici ed integralisti, lo Stato di Israele resta uno Stato, almeno sotto il profilo procedurale, “democratico”, con una cultura istituzionale e giuridica […] capace di esprimere maestri del diritto come uno dei presidenti della Corte suprema israeliana, Aharon Barak, che con i loro scritti hanno saputo parlare all’intero mondo giuridico occidentale o grandi scrittori che sentiamo come straordinari interpreti della nostra sensibilità.

E però questi dati del quadro − che spingono a meditare ed a ponderare con ancora maggiore attenzione le posizioni da assumere − non possono indurre alla rinuncia ad analizzare, in termini obiettivi, politiche che sempre più apertamente contraddicono principi e valori fondanti della civiltà giuridica e dello stesso Stato di Israele e violano la più elementare legalità internazionale, contribuendo ad accrescere a dismisura le tensioni e moltiplicando senza fine la repressione violenta e le uccisioni”.

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