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Scuola di secondo grado, cronaca di una chiusura annunciata

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Prima due presidenti di regione, De Luca e Musumeci, poi lo stesso governo con l’ultimo DPCM (75% di alunni a casa, 25% in presenza) hanno, temporaneamente?, chiuso le scuole secondarie di secondo grado. E’ esagerato affermare che il ritorno alla cosiddetta Didattica a Distanza fosse già “scritto nelle cose”?

Certo, diversamente dal precedente anno scolastico, non abbiamo assistito alla retorica del nuovo (la DaD è un’occasione per rinnovare la scuola), visto che nessuna persona di buon senso, né tra i docenti, né tra gli alunni, può negare ciò che la pandemia ha reso chiaro a tutti: la scuola è, e si fa, in presenza.

Si tratta, però, di una ben magra consolazione per chi è ancora convinto che, come diceva Calamandrei, la scuola sia un organo costituzionale.

Anche perché è ormai chiaro che la Didattica a Distanza penalizza i ragazzi più fragili, quelli che hanno maggiori difficoltà a concentrarsi o motivazioni meno forti allo studio, o ancora situazioni familiari più difficili, a vari livelli, compreso quello economico. Non tutti, infatti, hanno a disposizione un computer o una connessione internet adeguata, soprattutto quando ci sono altri figli o genitori che lavorano da casa. Senza parlare del problema degli alunni con qualche disabilità, e quindi con necessità specifiche, che sono i più penalizzati di tutti.

Ci si chiede, da marzo a settembre è stato fatto tutto il possibile per prepararsi ad affrontare i problemi che si sarebbero inevitabilmente presentati? e quindi per riaprire le scuole in sicurezza, o in condizioni quantomeno più sicure? In fondo, sarebbero servite poche “novità”: diminuire il numero degli alunni per classe e, conseguentemente, individuare nuovi locali (per esempio, utilizzando i tanti edifici sfitti presenti in tutte le città), assumere una quantità adeguata di docenti e personale ATA, potenziare il servizio dei trasporti.

Se ci limitiamo a quest’ultimo punto, colpisce che non ci sia stata una rivolta dell’opinione pubblica quando alcuni presidenti di regione (peraltro, per par condicio, di entrambi gli schieramenti politici) hanno candidamente affermato che essendo i mezzi di trasporto eccessivamente affollati, l’unica soluzione era quella di chiudere le scuole. Ed è ciò che si sta facendo.

Ovviamente, la chiusura riguarda solo le scuole secondarie di secondo grado, perché se fosse estesa anche agli altri ordini (infanzia, primaria e secondaria di primo grado) si bloccherebbe gran parte del paese.

Poiché le nostre osservazioni rispondono innanzitutto al buon senso, ci si chiede cosa ha impedito di procedere in tal senso, visto, peraltro, che nessun virologo, ma diremmo nessuna persona di buon senso, poteva pensare che il virus sarebbe sparito miracolosamente dopo l’estate.

Inoltre, questa falsa ripartenza ha, anche, impedito che le scuole contribuissero a contenere la pandemia. Infatti, se si fossero riaperte garantendone l’efficienza, avrebbero rappresentato luoghi meno insicuri (il rischio zero è impossibile) e, rispettando ragazzi e personale le norme di sicurezza e il distanziamento fisico, avrebbero contribuito a diffondere comportamenti corretti di cui tutti avrebbero beneficiato.

Non è andata così. E’ troppo chiedere che si ponga immediatamente riparo e che, per il prossimo anno scolastico, si operi in modo opposto? E per i “cantori” del nuovo a tutti i costi, non sarebbe una gran bella novità se lo stato finanziasse adeguatamente la scuola pubblica statale, mettendo alunni e personale nelle condizioni migliori per lavorare?

La pandemia, infatti, ha messo in luce le tante arretratezze del nostro sistema di istruzione che, anche prima, accanto a poche eccellenze, presentava un quadro generale disarmante: edifici costruiti, mediamente, oltre 50 anni fa, classi pollaio, non rispetto della normativa sulla sicurezza, che, fra l’altro, determina in quasi due metri quadrati lo spazio che ogni alunno dovrebbe avere a disposizione.

Se questa tragica esperienza modificherà obiettivi e priorità dipenderà anche dalla capacità dell’opinione pubblica di pretendere che i diritti, in primo luogo quelli alla salute e all’istruzione, non vengano calpestati.

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