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Processo Ciancio. Ecco i professionisti della speculazione

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Un processo, quello a Mario Ciancio, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, che dovrebbe essere, vista l’importanza del personaggio, al centro dell’attenzione. Il dibattimento procede, invece, a fari spenti, come se alla Città non interessasse interrogarsi sulla propria storia.

Per rompere questo muro di silenzio, Antonio Fisichella ricostruisce oggi il ruolo avuto dai soci dell’editore all’interno della società Icom, creata per gestire l’affare Porte di Catania.

In aula fanno la loro apparizione i soci (i primi due) di Mario Ciancio nella Icom s.r.l., società promotrice di Porte di Catania, il grande centro commerciale realizzato sui terreni di proprietà del potente editore. Si tratta di Luigi Mellina, avvocato ed ex dirigente della Regione Sicilia, e di Donato Di Donna, imprenditore di origini baresi trapiantato da tempo nel capoluogo palermitano.

Mellina deteneva il 3,50% delle azioni Icom, Di Donna il 5%. I due hanno investito un capitale modestissimo (circa diecimila euro) e hanno ricavato, con la creazione del centro commerciale, rispettivamente 1 milione e 250 mila euro e oltre 1 milione e 350 mila euro. Soldi che hanno moltiplicano il loro valore iniziale più di cento volte nell’arco di pochi anni. Una specie di pesca miracolosa.

“Lo sviluppo di un centro commerciale è un’operazioni a bassa esposizione finanziaria ma ad altissima professionalità” è la spiegazione offerta da Donato Di Donna. Uno slogan più che una spiegazione, che tutto sembra dire e nulla chiarisce. Perché, così come è risultato dal dibattito processuale, della bassissima esposizione finanziaria dei soci Icom non vi è dubbio. Sull’altissima professionalità è lecito avanzare qualche riserva. La stessa composizione della Icom poco ha a che fare con una solida cultura delle competenze nel campo dei centri commerciali, né si caratterizza per il perseguimento di un precisa missione aziendale.

Appare invece come una sorta compagnia di ventura, un assemblaggio di pezzi di classi dirigenti siciliane, in particolare palermitane. Nella Icom, i soci non apportano capitali, né alte professionalità ma amicizie, rapporti, relazioni con il mondo politico, innanzitutto. E non solo. La loro forza sta in un largo ventaglio di relazioni

Si guardi soltanto ad alcuni dei membri della Icom. In particolare a Giovanni Vizzini e a Tommaso Mercadante. Il primo, facoltoso imprenditore nel settore del lotto, è soprattutto fratello del potente Carlo Vizzini, più volte ministro socialdemocratico e, ai tempi della Icom, senatore di Forza Italia e del popolo della Libertà. Tommaso Mercadante, giovane commercialista palermitano, è invece figlio di Giovanni Mercadante, nipote del boss di Prizzi, Tommaso Cannella, primario di radiologia, deputato regionale di Forza Italia, arrestato nel 2006 e condannato con sentenza definitiva a dieci anni e otto mesi per associazione mafiosa, in quanto uomo di fiducia di Bernardo Provenzano.

Le origini della Icom e le stesse fortune patrimoniali dei soci scaturiscono dai reticoli affaristici radicati nella società e nella politica siciliana, solidi portatori di interessi di un mondo articolato che comprende imprenditoria, pezzi del sistema politico, aperto ad esponenti del mondo mafioso. Reti di relazioni che si muovono a tutto campo, pronti a accaparrarsi le occasioni che via via si presentano.

Non a caso la Icom nasce e muore con Porte di Catania. Lo incontra cammin facendo, per strada, attraverso le relazioni che i suoi membri sono in grado di sviluppare. Fatto l’affare, si scioglie. Una compagnia di ventura, appunto. Come gli eserciti di mercenari che si univano per una campagna militare e poi si scioglievano, per ricominciare altrove. E non è un caso che alcuni azionisti della Icom, guidati da Mario Ciancio, daranno vita, ad un’altra società (Dittaino Development s.r.l.) per realizzare, ancora una volta, su terreni dell’editore catanese, un nuovo polo commerciale, l’outlet di Agira.

Il meccanismo che si mette in moto intorno a Porte di Catania (replicato poi ad Agira) non risponde alle leggi di mercato né a quelle delle altissime professionalità. E’ invece uno dei casi più emblematici di quell’economia di relazioni, che si muove a ridosso del sistema politico ed è in grado di determinarne le decisioni. Un sistema che si nutre di autorizzazioni, appalti e concessioni pubbliche. Infatti, Porte di Catania è stato reso possibile dalla variante urbanistica che il Comune di Catania ha concesso, indifferente al fatto che l’ennesimo polo commerciale avrebbe rappresentato un colpo mortale per il tessuto civile ed economico della città.

Dal dibattito processuale è emerso un altro importante elemento: Porte di Catania è uno degli affari più coperti, sicuri e blindati che mai si siano visti, a Catania e non solo.

Era infatti già stato ideato, ben prima della Icom, dall’Italcantieri, società di costruzioni fondata da Silvio e Paolo Berlusconi, poi ceduta all’imprenditore Pino Ruggeri. L’Italcantieri darà mandato al discusso impresario veronese Renzo Bissoli, uno dei protagonisti insieme a Ciancio dell’affare Pua (Piano urbanistico Attuativo Catania Sud), di acquisire la proprietà dei terreni dell’editore. Bissoli per questa intermediazione ricaverà 500 mila euro.

Il fallimento della Italcantieri induce il gruppo Ruggeri a cedere il progetto al sardo Sergio Zuncheddu costruttore di fiducia del gruppo Auchaun, proprietario di giornali, tv e radio, più volte in predicato di scendere in politica come candidato del centro destra alla presidenza della Regione Sardegna.

E’ solo a questo punto che la Icom entra in azione. E’ il capitale di relazioni, e non particolari competenze e professionalità, a far cadere tra le braccia dei suoi soci un affare da centinaia di milioni di euro. Ed è a questo punto che la Icom si rivolge al dominus di Catania, il direttore editore Mario Ciancio, in grado di spostare le montagne della politica catanese. Con la discesa in campo di Ciancio sarà possibile ottenere la variante al Prg, la concessione edilizia e le autorizzazioni.

Solo la sua presenza sarà in grado di “produrre” il clamoroso decreto regionale (20 febbraio 2006) che incrementerà del 33% le superfici commerciali della città, consentendo in una città ormai sovraffollata, l’ennesimo nuovo centro commerciale. Sono dunque sembrati imbarazzanti i tentativi, perseguiti dai due soci Icom, di presentare l’affaire Porte di Catania sotto la luce di una normale operazione di mercato, come tale sottoposta alle incertezze della domanda e dell’offerta.

In verità non hanno affrontato alcun rischio d’impresa. Di tasca loro (eccezion fatta dei dieci mila euro iniziali con cui hanno pagato le quote societarie) i soci Icom non hanno tirato fuori un euro. Le spese che pure hanno affrontato (progettazione del manufatto, costi di costruzione, oneri di urbanizzazione e carte bollate) sono state affrontate attraverso garanzie e fideiussioni. Cioè attraverso linee di credito concesse dalle banche.

Se si guarda con attenzione la tempistica di queste spese emerge come la gran parte di esse siano state affrontate soltanto dopo l’approvazione della variante. Cioè, quando l’affare era andato ormai in porto. Gli stessi debiti sono stati estinti piuttosto comodamente. Ad esempio, il dottor Mellina che doveva ricevere dalla vendita delle proprie quote 1 milione e 450 mila euro ne ha incassati 200 mila in meno, ad estinzione del proprio contributo alle spese sociali. E così è andata per tutti gli altri soci. Le spese affrontate dalla Icom ammontano a circa 4 milioni di euro. Ottenuti dalle banche con fideussioni e garanzie che hanno fruttato ai soci Icom, nel complesso, almeno 38 milioni di euro. Non proprio un’inezia.

In più occasioni i due testimoni hanno dunque cercato di vestire i panni di imprenditori, capitani coraggiosi, artefici di sviluppo e innovazione.  Ne sono usciti con abiti del tutto diversi: intermediari dell’economia redditiera e parassitaria. Hanno promosso un affare, Porte di Catania, che si iscrive all’interno quell’infinito ciclo del cemento, rendita fondiaria e speculazione edilizia, da sempre aperto alla partecipazione mafiosa. Un ciclo ormai cinquantennale, incapace per sua natura di creare sviluppo e occupazione, che ha condotto la città al suo attuale sfinimento. 

In ultimo. Nell’udienza c’è stato spazio per un piccolo colpo di teatro inscenato dal dottor Di Donna. Sul finire dell’udienza ha infatti affermato, testualmente: “A differenza di ciò che si crede la presenza di Mario Ciancio è stato un danno. A causa del mito di Cianciopoli non c’era un funzionario che firmasse una carta”. Parole del tutto fuori misura, mille miglia lontane da ogni realtà processuale. E ancor più distanti da quella storica. Eppure assai significative. A dettarle non è solo sfacciataggine, imprudenza e un forte senso di impunità. Ad alimentarle è anche un serrare le fila di quei reticoli di cui egli è parte. E in fondo rappresentano l’ennesimo atto di omaggio di un vassallo alla potenza di Mario Ciancio.

2 Comments

  1. Finalmente a Catania, ormai devastatissima, un giornale on line svergogna quanto finora camuffato da imprenditoria. Grazie Argo! I nostri figli,nipoti e pronipoti costretti a lasciare Catania, ve ne sono ancora più grati.

  2. Non d’accordo con quanti vorrebbero far risalire a Ciancio la distruzione del territorio della città di Catania. La responsabilità è collettiva a ricade su burocrati eccellenti, politici eccellenti che hanno contribuito , con le grandi imprese e con i possidenti della zona, a depredare il territorio .Senza un ufficio urbanistico catanese, gestito da accomodanti ingegneri,e senza un Genio civile o un ufficio del Demanio marittimo , gestiti da potenti lecchini e ricettori di soldini, il territorio della città e quello della Sicilia in genere non sarebbe stato distrutto. I responsabili degli uffici del genio civile e quelli del Demanio hanno autorizzato, dietro compensi favolosi, opere ignobili a danno del territorio. E’ solo Ciancio il responsabile? Non credo. La burocrazia e la Magistratura hanno contribuito a creare un centro di interessi che ha fornito soldi agli investitori. Dove li mettete i giudici? Non c’è solo Palamara. I Palamara sono ben distribuiti sul territorio.

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