La speranza e il cambiamento

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Proponiamo oggi la riflessione inviataci da Maria Liberti, docente di storia e filosofia, che nel contesto opaco dei giorni che attraversiamo ci invita ad uscire dall’inerzia attraverso il recupero della speranza, intesa non come messianica attesa bensì come desiderio di cambiamento, consapevolezza che, attraverso la conoscenza, possiamo superare i nostri limiti e vedere oltre. Un invito ad agire, animati dalla volontà di migliorare, senza dimenticare che la speranza “non è un dono, ma un apprendimento sempre aperto alla perfettibilità delle cose”.

Gli articoli di Argo spesso denunciano guasti e inadempienze della nostra realtà con l’intento di favorire la sensibilità e la consapevolezza su determinati problemi e stimolare l’assunzione di atteggiamenti costruttivi in grado di contrastare l’inerzia di fronte all’esistente perchè questo non venga subìto come se non potesse essere diverso da come è.

In particolare, questa tensione mi è sembrata presente e ricorrente negli ultimi interventi Risvegliare la società civile, rifondare la politica e Organizzarsi per non soccombere, rispettivamente stimolati dal documento Non possiamo tacere e da un incontro tenutosi a Catania sulle emergenze del momento; in entrambi i casi, se pure dando voce a confronti maturati in ambienti diversi, si riferisce la preoccupazione per il momento attuale, reso ancor più delicato, nel nostro paese, dalle imminenti elezioni.

Personalmente, ho apprezzato le riflessioni proposte perché senza negare le difficoltà del contesto in cui ci troviamo, anzi proprio a partire da queste, si coglie l’invito all’impegno, ad un agire animato dalla volontà di migliorare le cose.

L’apertura a questa visione dinamica e trasformativa ripropone un tema importante che da sempre attraversa la storia e maggiormente viene sentito nei periodi di crisi, quando più forte è la tentazione di cedere, come se un male radicale rendesse immodificabile il corso delle cose.

Mi riferisco al tema della speranza, quel sentimento che portando a vedere ciò che ancora non è, induce a confidare nel “possibile” piuttosto che piegarsi a ciò che sembra necessario. Come l’utopia che, nella dimensione della storia, evocando un luogo che non è tende a richiamarlo, piuttosto che a negarlo, così la speranza, in quella personale e più intima della vita di ciascuno, o in quella più ampia della polis, anch’essa dà linfa al desiderio di cambiamento e manifestando, come ci ricorda Mancuso, la forza e il coraggio che ne fanno una virtù, si adopera per realizzarlo, accorciando le distanze che separano da esso.

Ci sono condizioni, comunque, che danno credibilità al cambiamento e alla volontà di operarlo, salvando la speranza dal rischio di un frustrante velleitarismo e facendone un atto cognitivo di specie orientativa, come la definiva E. Bloch nel suo Principio Speranza.

In un’epoca diversa da quella del filosofo citato, ma anch’essa densa di profonde trasformazioni, al punto da autorizzare in ogni ambito la ricerca dei fondamenti, Kant si chiedeva: ”In che cosa posso sperare?” La domanda, evocando il bisogno di felicità che tutti da sempre ci accompagna, è forse la più umana e sentita della filosofia; essa porta con sé il segno della nostra costitutiva incompiutezza e quindi dell’ambivalenza del desiderio che, figlio di ricchezza e povertà, è la ragione del nostro continuo tendere verso qualcosa.

Ma al di là di questo e dello specifico della risposta kantiana, la domanda torna utile perché pone una questione di metodo, sempre valida, in quanto chiede quali siano le condizioni che legittimano la speranza, che, cioè, dandole il rigore che viene dal senso del limite – dal quale non possiamo prescindere – le conferiscono consistenza e attendibilità.

Mi viene naturale, a questo punto, ricordare la raffigurazione della Speranza data da Andrea Pisano nel 1300, in uno dei rilievi che ornano la porta del Battistero di Firenze, sulla quale non a caso nel testo sopra citato si è soffermato E. Bloch; nella sua scultura, Pisano rappresenta una donna alata che non è sospesa fra terra e cielo, ma a questo guarda, manifestando nella sua postura lo slancio di chi sembra tendere verso un oltre, come da terra dovesse spiccare il volo.

Di fatto, stando alla Filosofia della speranza dello stesso Bloch, di un oltrepassamento si tratta, perché parlando di Speranza, parliamo di ciò che non è ancora, ma la direzione e le condizioni di tale passaggio, sono date dalla considerazione dell’esistente che non può essere modificato se viene mistificato; solo la sua conoscenza, il suo riconoscimento critico, possono dare alla volontà di cambiare la misura della sua fattibilità, coniugando le ragioni della mente con quelle del cuore.

La soluzione dei problemi, infatti, non è evento messianico, ma paziente costruzione di chi nel tempo lavora e dal tempo si lascia lavorare con lo sguardo verso ciò che non è ancora, una forma singolare di ontologia inaugurata dallo stesso Bloch.

A questo proposito, forse è utile ricordare che Galimberti in L’ospite inquietante ha distinto l’attesa e la speranza, come due diverse modalità di sentire e conseguentemente di agire, denunciando il rischio di passività della prima e l’energia costruttiva della seconda aperta al divenire in cui le cose dispiegano il loro potenziale; una dimensione fondamentale che dà senso al tempo e finalità al nostro vivere che altrimenti scorre nichilisticamente, come fosse altro da noi.

Occorre per questo, come diceva Bloch, “una coscienza anticipante”, una coscienza cioè in grado di superare i limiti dell’esistente e vedere oltre o meglio lontano; occorre l’attenzione al presente, ma non la chiusura ad esso, perché la speranza è ciò che ci fa alzare da terra, come il rilievo di Pisano insegna. E per chi se ne sentisse svuotato, forse è bene pensare che come l’arte, così le virtù e quindi la speranza, non sono un dono ma un apprendimento nell’orizzonte sempre aperto della perfettibilità delle cose.

Forse il problema è solo quello di non smettere di ricominciare, almeno finchè si può.

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