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I 'neet' a Catania: né lavoro, né studio, né formazione

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Finalmente primi! Ogni tanto qualche soddisfazione tocca anche a noi.
Catania infatti è la città che primeggia nell’indagine statistica sui “neet”, i giovani che non hanno un’occupazione, non studiano e non frequentano corsi di formazione professionale (è questa la traduzione in italiano dell’acronimo inglese Not in Employment, Education and Training). Ne conta il 36,4%  (32,6% i maschi, 40,2% le femmine)  e condivide il poco invidiabile primato con Napoli.
Su base regionale prevale la Campania (valore medio 33,5%), seguita dalla Sicilia (33%), dalla Calabria (28,8%) e dalla Puglia (28,6%).
L’analisi del fenomeno è contenuta nel “Monitor” n. 25 del marzo 2011, bollettino della banca dati dei mercati del lavoro del ministero curata dall’agenzia Italia Lavoro.
L’età media dei “neet” va dai 15 ai 29 anni e si stima che in tutta Italia oltre 2 milioni di giovani sono in queste condizioni e che il 56,5% è costituito da donne. L’incidenza percentuale sul totale della popolazione di riferimento, con età compresa tra 15 e 29 anni, è pari al 21,2%. A Catania sono in tutto 77.580, di cui 35.053 maschi (il 45,2%) e 42.527 femmine (il 54,8% del totale).
A conferma di un dualismo ormai consolidato anche da altri indicatori, la presenza dei giovani “neet” è dunque particolarmente marcata nel Mezzogiorno: le prime 35 province per tasso di giovani “neet” sono del Mezzogiorno, con un valore medio di circa il 30% che si alza fino a toccare il 33,3% nel caso delle donne mentre per gli uomini scende al 27,4% .
Si tratta di valori pressoché doppi rispetto ad altre aree del Paese: nel nord-est si arriva infatti al 13,2%, nel nord ovest al 15,4% e al centro al 16,1%. Non mancano tuttavia alcune province del centro-nord al di sopra di questi valori, come ad esempio Frosinone, Massa Carrara, Rieti, Livorno, Chieti, Imperia, Gorizia, Terni, Latina, Ascoli Piceno.
In altre parole siamo in presenza di quella parte sempre più consistente di popolazione giovanile che è stata espulsa dai percorsi formativi e contemporaneamente si trova priva di occupazione. Nullafacenti quindi, ma non per scelta, più spesso per perdita di fiducia.
Osservazione confermata dal fatto che in Sicilia le persone classificate come inattive sono il 70,7% mentre quelle in cerca di occupazione sono il 29,3%. In Italia le stesse categorie si collocano rispettivamente al 65,8 e al 34,2%.
Indicazioni interessanti vengono anche dal considerare i titoli di studio di questi giovani. I valori più alti, in tutte le regioni, si registrano, sia per i maschi che per le femmine, per i giovani in possesso di diploma di scuola superiore di 4-5 anni e per quelli in possesso di licenza media. In Sicilia sono rispettivamente il 12,4 (in Italia l’8,9%) e il 15,6% (il 7,9 in Italia).
Ovviamente, anche da questo punto di vista, le regioni in cima alla classifica, con valori pari a circa il doppio della media nazionale, sono quelle meridionali come Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia.
I valori relativi ai giovani “neet” laureati sono invece pressoché allineati: il 2% in Sicilia, il 2.1% in Italia.
Si deve giungere alla conclusione che la diffusione della scolarizzazione al livello medio alto si sta rivelando un boomerang sul piano occupazionale? E’ un caso che, proprio in queste ultime settimane, si è sviluppato un serrato dibattito sulle negative conseguenze dell’abbandono dei lavori manuali nei processi formativi?
La seconda domanda ci sembra legittima, ma non bisogna dimenticare che abbiamo appena evitato la liceizzazione degli istituti tecnici e che l’attuale riforma in corso di questi ultimi ha tagliato in maniera consistente il monte-ore, andando a colpire soprattutto gli insegnamenti di laboratorio.
C’è da considerare poi l’asimmetria del mercato del lavoro, con un centro-nord alla perenne ricerca di operai e tecnici specializzati che sicuramente sono ampiamente presenti fra i “neet” del meridione, ma come si fa a chiedere a questi giovani di trasferirsi al nord quando vengono offerti contratti e stipendi che non consentono loro neanche di rendersi economicamente del tutto autonomi dalle famiglie, considerato anche il costo della vita?
Sembra un circolo vizioso che non riesce a spezzarsi. Certo è che le famiglie meridionali si stanno trasformando sempre più in ammortizzatori sociali e che la malavita organizzata da questa amplissima disponibilità di manodopera a buon mercato trae enormi vantaggi.
Sarebbe troppo chiedere alla nostra classe dirigente di riflettere su queste domande che riguardano milioni di giovani, abbandonando per un attimo l’ossessiva attenzione per una riforma della giustizia che interessa una sola persona?

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