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Vittoria Giunti, maestra di democrazia

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Vi abbiamo già parlato della prima sindaca di Sicilia, la terza d’Italia. Era una grande donna, antifascista e partigiana; fu componente della commissione nazionale per il voto alle donne, direttrice della casa della Cultura di Milano e della rivista Noi donne. Si chiamava Vittoria Giunti  e nel ’56 fu messa a capo di un piccolo comune appena nato nell’Agrigentino, Santa Elisabetta. Lei, toscana di nascita e siciliana per amore e passione politica, insegnò ai sabettesi la democrazia, il controllo della cosa pubblica cioè di tutti, la partecipazione.
Leggiamo di lei in un libro-intervista scritto da Gaetano Alessi, giornalista free lance, editorialista di Articolo 21 e caporedattore di Ad Est, giornale autonomo d’inchiesta. Ne riportiamo alcuni passi. Così Vittoria fu eletta e così amministrò il paese.

“…Posi una condizione: di essere candidata non solo da un certo gruppo ma da tutti e ricordo di aver fatto il giro del paese casa per casa (altro che primarie n.d.r.); fui accettata e così fui candidata e abbiamo vinto le elezioni …Furono anni belli perché c’era, per esempio, un’offerta di lavoro volontaria; nessuna casa aveva l’acqua e allora con poche opere che il Comune mi diede a disposizione e con il lavoro collettivo delle persone fu fatto ciò. Mi ricordo un episodio. Vennero appaltati i lavori della strada S. Elisabetta Raffadali. I Sabettesi posero come condizione che si cominciasse da S.Elisabetta e non da Raffadali, altrimenti questa strada non sarebbe mai arrivata al loro paese; anche l’ingegnere non riusciva a lavorare poiché una delegazione di Sabettesi a turno si metteva nella strada per controllare quanto cemento venisse utilizzato. Oltre alle poche cose primarie che abbiamo potuto fare, come appunto le trazzere, l’acqua, il quartiere nuovo, un progetto di municipio, la grande funzione di questi anni con la mia sindacatura fu una scuola di democrazia, incanalare queste persone che non avevano mai , in tutta la loro storia, vissuto un’esperienza di società democratica, incanalarli nella vita delle istituzioni…”
Un’altra bella pagina del libro-intervista è quella che descrive l’arrivo di Vittoria a Raffadali, a fianco ma non al seguito del marito, il siciliano Salvatore Di Benedetto, partigiano anch’egli, e più tardi, sindaco di Raffadali, deputato e senatore della Repubblica. Totò portò nel paesino lei, toscana colta, di famiglia borghese.
Quando il treno si fermò alla stazione di Agrigento, con la locomotiva che andò a urtare le balauste di protezione pensai: Il treno ha battuto contro i confini del mondo, al di là dell’ignoto. Era tutta una valle buia. Chiesi a Totò : “Dove sono i templi?” Lui mi disse: “Se guardi bene, in tutto quel buio ci sono delle piccole luci: quelli sono i templi”. Erano già illuminati. “Ma li devi vedere di giorno – aggiunse Totò – perché allora sono così d’oro che è come se il sole che hanno preso in questi secoli fosse immagazzinato dentro quelle pietre e splendono come un cortile d’oro. Domani li andremo a vedere”. Camminando, in tutta quella valle buia, incominciai a vedere una luce, una luce che conoscevo. Era la luce della più antica civiltà che era rimasta lì, racchiusa in quelle pietre. Poi mi misero su una corriera tutta sgangherata. Aveva le ruote legate con le catene.
 Il cocchiere si rivolse a Totò e gli disse: “Ecco, con questa vettura torni a casa sua”. Cammina cammina, arrivammo a destinazione.
”Ecco, signora, guardi fuori”, mi disse la persona che era vicino a me. Vidi una grande muraglia, tutta grigia e nera. Era il muro del Palazzo Principe. “Vedrà che sale che ci sono dentro -disse ancora la signora al mio fianco – e vedrà che famiglia c’è”. E così, piano piano, tutto quel buio che c’era cominciava a diradarsiLa corriera si fermò sotto la muraglia del castello.
Venne un sacco di gente. C’era chi mi voleva baciare le mani, chi la faccia… “Vogliamo conoscerla – gridavano – vogliamo conoscerla questa compagna che viene da lontano e che viene apposta qua a fare la moglie al nostro Totò”.
Poi avvenne l’incontro con il paese, nel modo più semplice, dietro l’invito di una donna, una compagna del Pci.
“Sono una compagna, la prima compagna di Raffadali. Ce ne sono tante dietro di me che vogliono conoscerti. Almeno fatti vedere, affacciati al balcone”. Io dissi: “Ancora no; è troppo presto”. Lei insistette: “La cosa è semplicissima. Entra, vai nella camera, prendi il tuo bambino (Sandro era già nato e aveva pochissimi giorni), prendilo in braccio e affacciati con lui al balcone in modo che tutte le compagne lo possano vedere, in modo che tutti sappiano: la famiglia Di Benedetto è tutta qua è non andrà più via“. Feci così… ed in quel modo semplice diventai raffadalese e non andai più via”.
E così fu. Vittoria Giunti restò a Raffadali  fino alla sua morte avvenuta il 3 giugno del 2006.

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