Due o tre cose che so di lei, uno sguardo lucido e irriverente su Catania

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Marina Mangiameli, docente di storia e filosofia nei licei, autrice di articoli e pubblicazioni su Catania, prosegue la collaborazione con Argo proponendo una lettura dell’ultimo lavoro di Antonio Di Grado.

Rimarrebbe deluso chi cercasse nel saggio di Antonio Di Grado, uno dei più brillanti studiosi di italianistica della nostra Università, un’ode monotematica alla bella Catania secondo la tradizione o un’invettiva violenta e corrosiva delle sue manchevolezze.

In realtà si tratta di un ritratto, forte, critico ma anche affettuoso, della città dell’Etna, descritta con l’occhio acuto di un intellettuale europeo di vasta cultura.

Inoltre in un’epoca come la nostra, in cui sempre più si parla e si scrive quasi esclusivamente un rozzo ”inglesiano”, fa particolarmente piacere leggere questo testo che, in modo scorrevole e piano, si produce in una lingua bella, elegante e propria.

Tale è la lettura di “Catania: due o tre cose che so di lei” (Algra editore 2022) che offre un vasto e articolato panorama del mondo culturale come dello sviluppo cittadino e delle sue contraddizioni, lette con la volontà di mostrare la complessa realtà della dimensione cittadina. Ma non solo.

Così Brancati e Maupassant, Dante e Domenico Tempio, Verga e De Roberto ma anche Francesco Guglielmino, Agata e Blasco Uzeda entrano nella composizione non in modo casuale ma come momenti di un limpido ragionamento che si fa seguire con naturalezza anche nei momenti in cui meno lo si condivide.

Tra ricordi personali, della vita politica e del dibattito culturale, affiorano, nello scorrere della ricostruzione, episodi e personaggi che raccontano ognuno un pezzo della Catania di cui si parla ma che tutti insieme compongono un’immagine unica aliena da luoghi comuni e volgarità di ogni tipo.

Così Giarrizzo, Leone, Barcellona sono pilastri di un progetto (fallito) di città anche se le loro realizzazioni rimangono come gli elementi più significativi di una possibile “altra” città.

E poi i grandi sconfitti, come Nino Recupero, Manlio Sgalambro, per non dire di Goliarda Sapienza e Franco Battiato che, ognuno a suo modo, ha prefigurato una ”idea” di città, ha dato voce ai suoi problemi millenari ed anche alle sue infinite risorse.

E poi ci sono i luoghi simbolo della speranza e del dibattito culturale come la libreria “Cultura”di Carmelo Volpe o “Nuova Cultura” di Ciccio Distefano.

Ma fallita la “primavera di Catania” (1993-1996) della prima giunta di Enzo Bianco durante la quale le forze vive della città si produssero in una sorta di “effervescenza creativa” cui l’Autore partecipò in prima persona e di cui propone un bilancio critico, la città diventa “Capitale di quella geografia dell’anima cui gli scrittori hanno dato per convenzione il nome di Sicilia”, ma anche una città che “Affacciata sul mare, al mare.. volta dispettosamente la schiena…”. Anche in questa occasione il tormentato dialogo con i quartieri più degradati e problematici fu troncato da opinabili scelte di interventi di ordine pubblico che misero fine a un ribollire di speranze cui nulla si sotituì.

Il teatro è l’altro grande protagonista dello sviluppo cittadino e delle sue crisi. Lo dimostra l’intrecciarsi di due eventi fondamentali ovvero l’inaugurazione del teatro Massimo e la pubblicazione dei “Vicerè”. Ne deriva il confronto con l’idea della città come teatro e, a partire da questa, con un’interpretazione fortemente caricaturale e polemica dei ruoli sociali e delle loro interrelazioni. Da questa visione si giunge al capolinea verghiano, alle macerie della casa del nespolo nella città “morta e vorace”.

Qui si origina “il teatro della città”, il Massimo Bellini, lungamente desiderato, fortemente voluto, che si intreccia saldamente con la “città come teatro”, l’una e l’altra scosse da potenti terremoti come quello di cui parla Tempio nella “Carestia” in cui lo spazio urbano si fa spazio simbolico. Ovvero nel cinico trasformismo dei signori dei Vicerè.

Sempre però all’idea di città rannicchiata fra via Etnea e villa Bellini manca il mare cui la città volge rispettosamente la schiena secondo l’Autore. E così da Nino Martoglio, a Tempio ad Aniante la città finge di ignorare il mare, abbandona il mito e si cala nella bruciante realtà.

Catania è insomma l’insieme dei suoi trofei e delle sue incompiutezze, la “bugia dei suoi aerei fondali e della sue quinte barocche”, ma è anche “lo sguardo lucido e irriverente che la smaschera”.

Da “Turiddu Macca a don Blasco Uzeda” seguiamo poi le mille trasformazioni della città che da Giovanni Verga a De Roberto, da Musco a De Carlo è andata progettando “nuovi cieli, nuova terra”. Ed in questo contesto, in cui il mare diventa un “non luogo” sul cui sfondo si muove silenzioso Mauro Corsaro, si impone con allegria uno storico come Tino Vittorio e si palesano una serie di personaggi femminili fra i più diversi, ballerinette e donne di strada ma anche Mata Hari che nel 1913 si esibiva a Palermo. Eroine inconsapevoli offerte in olocausto al Moloch della prepotenza maschile.

C’è poi il ricordo di un delicato poeta come Francesco Guglielmino, una sorta di “cerniera” fra le generazioni di Verga e De Roberto e quella di Brancati, un autore di cui ancora si aspetta l’edizione di un interessante carteggio con quasi tutti i più notevoli intellettuali dell’epoca. E così si intravede la figura di Gesualdo Bufalino e di Sciascia ma anche di Pirandello.

Complesso appare pure il racconto del legame della città con la religione: non solo la dedizione e l’amore talora orgiastico per la santa bambina ma anche la presenza di significative minoranze protestanti rappresentate da importanti imprenditori come da ignorati personaggi che a quel movimento parteciparono nel ‘500 come Giorgio Siculo e poi, oggi, dalla chiesa valdese.

C’è poi la Catania dei primi del secolo effervescente centro di produzione cinematografica rappresentata da Ugo Saitta con quel capolavoro del documentarismo che è “Zolfara”.

E così dalla via Alessi, dove l’autore è nato ed ha vissuto nella prima giovinezza, si allarga lo sguardo ad una visione nuova della città, crudele talvolta, sempre affascinante, originale e vera della Catania di oggi, nuova ed antica ad un tempo, e dalla sua realtà che, lontano da stereotipi e luoghi comuni, è unica.

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