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Sul sequestro penale del chiosco di piazza Nettuno

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Pensavamo che fosse una battaglia persa, tanto che avevamo intitolato La vittoria del Chiosco‘ il nostro ultimo articolo sulla struttura di piazza Nettuno.
Da mesi invece il chiosco è chiuso e un piccolo cartello spiega che si tratta di un sequestro penale disposto dalla Procura della Repubblica sulla base dell’articolo 321 del codice di procedura penale.
Parrebbe quindi che il pubblico ministero abbia ritenuto che la “libera disponibilità” di questo bene avrebbe potuto “aggravare o protrarre le conseguenze” del reato ovvero “agevolare la commissione di altri reati” (art 321 ccp). Da qui il sequestro.
Non è ancora possibile, in questa fase del procedimento, conoscere il contenuto del provvedimento, anche se Argo ha tentato di chiedere un accesso agli atti. Probabilmente si saprà qualcosa dopo la conclusione delle indagini preliminari o lo svolgimento dell’udienza preliminare.

Terremo gli occhi aperti e informeremo la città perchè riteniamo che gli atti amministrativi con cui questo chiosco è stato autorizzato non abbiano i necessari requisiti di coerenza e trasparenza.
I documenti che abbiamo richiesto, ottenuto e pubblicato parlano di autorizzazioni concesse e poi negate e poi nuovamente accordate con annullamento dei provvedimenti di decadenza.
Si può ricostruire, ad esempio, come la struttura sia stata autorizzata da un dirigente dell’Urbanistica nonostante il parere negativo espresso dai tecnici del proprio ufficio e da un’altra direzione.
E si può vedere come anche il Demanio Marittimo si sia esercitato nell’alternare dinieghi e revoche.
La ditta, la società Nuova Epoca di cui è legale rappresentante Giovanni Vasta, otteneva intanto dal TAR una sentenza favorevole avverso il Comune che sosteneva la necessità di una richiesta di autorizzazione al montaggio invece che di una segnalazione di inizio attività (Scia).
E su cosa giocava Vasta per ottenere questa sentenza? Sul fatto che il chiosco dovesse essere considerato una struttura fissa che “somministra alimenti e bevande”, e non una struttura mobile, un ‘posteggio’.
Una strana linea di difesa per chi aveva ribadito che si trattava di una “opera precaria” nel momento in cui chiedeva, senza successo, al Demanio di trasformare la concessione da stagionale in annuale.
Nessuna coerenza quindi anche da parte della ditta che lascia aperto, inoltre, l’interrogativo su dove il chiosco, esercizio fisso o opera precaria che fosse, scaricasse i propri reflui.

Tra i molti punti interrogativi vi è quello sostanziale se sia lecito applicare, in questo caso, la normativa del 2011 sulla liberalizzazione delle attività economiche, come sostenuto dal TAR.
La liberalizzazione prevede, infatti, anche dei vincoli laddove si debba salvaguardare un “interesse generale costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario”.
Come abbiamo già scritto, ci chiediamo “quale fine abbiano fatto non solo la necessità di tutelare un bene comune come una piazza situata in zona di incomparabile bellezza paesaggistica, ma anche quei principi costituzionali (utilità sociale, libertà, dignità, sicurezza, paesaggio e ambiente) che configurano il limite alla libertà di impresa”.
E resta comunque il fatto che il chiosco, pur sequestrato, contribuisca a deturpare un’area già compromessa dalla scarsa manutenzione.

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